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«Devi riconoscere che le magnifiche promesse della scienza avvenire ti atterriscono e le vedresti volentieri abortite. Non per la ragione che la scienza crea micidiali armamenti (si troverà sempre la difesa equivalente; e, comunque, non è l’uccisione di uomini che sia per dispiacerti: si viene al mondo per morire), ma perché la scienza potrà fornire un giorno mezzi tali di controllo sulla vita interiore e sulla vita fisica dell’individuo (sincerity test, sterilizzazione, ecc.) o surrogati dell’individuo stesso (robots) o intervento nell’attività interiore fisica individuale (inoculazione di sperma artificiale, classificazione delle attitudini, controllo statistico dei gesti alla Taylor, ecc.), che la vita non varrà più la pena di essere vissuta».
Cesare Pavese (1908-1950) ha vergato queste parole il 29 marzo 1940, consegnandole al diario Il mestiere di vivere, pubblicato postumo nel 1952.
Se si volesse essere banali, le si definirebbe profetiche. In realtà sono molto di più. Sono la sentenza di suicidio che una intera civiltà ha emesso con largo anticipo. Forse per avvisarci. Ma in ascolto non c’era nessuno.
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