Il silenzio delle femministe sui crimini della Cina contro le donne

La repressione dei diritti delle donne nella Repubblica Popolare Cinese di Xi Jinping. La testimonianza di Rushan Abbas

Urumqi, Xinjiang

Urumqi, Xinjiang. Image from Needpix.com

Last updated on Luglio 8th, 2020 at 07:38 am

Rushan Abbas è una bella signora bruna che vive a Herndon, in Virginia, Stati Uniti d’America. È nata nella Regione autonoma uigura dello Xinjiang, nella Repubblica Popolare Cinese, e appartiene alla minoranza etnica turcofona e musulmana degli uiguri. Nello Xinjiang, che gli uiguri per ragioni storiche e culturali chiamano però Turkestan orientale, con il pretesto della lotta al fondamentalismo e al terrorismo, il suo popolo viene perseguitato e oppresso dal regime comunista cinese, e milioni di persone vengono rinchiuse in quelli che sono veri e propri campi di concentramento: un genocidio, e il mondo occidentale l’ha più volte riconosciuto.

Rushan Abbas è un’attivista che opera a favore della libertà religiosa e dei diritti umani nella propria terra natale e altrove, in prima persona e attraverso Campaign for Uyghurs, la Ong che dirige. È nota per la battaglia condotta per ritrovare e portare in salvo la sorella Gulshan, medico in pensione scomparsa da anni nell’inferno del sistema detentivo cinese e ricomparsa solo di recente, appunto in carcere.

Rushan Abbas ha firmato un articolo per il quotidiano online specializzato Bitter Winter, dove racconta la tragica situazione delle donne uigure in Cina, imprigionate, stuprate, separate dai mariti e dai figli, torturate, sottoposte a sterilizzazione e ad aborti forzati. Soprattutto ha invocato l’aiuto e la presa di posizione delle femministe di tutto il mondo, tanto pronte a levarsi in piedi per mille questioni di importanza a volte francamente limitata, ma mute davanti allo «stupro di massa promosso dal regime ai danni di un’intera etnia di donne».

“iFamNews” ha contattato Rushan Abbas per averne il parere su alcune questioni che toccano da vicino temi che dovrebbero essere, ma evidentemente non sono, nel cuore delle femministe del “Primo mondo”.

Rushan Abbas

In passato, nei Paesi occidentali, le femministe consideravano alcuni indumenti come “vessilli di libertà”, basti pensare alla minigonna. Oggi, in Cina, le donne uigure non possono indossare l’abbigliamento tradizionale musulmano: si tratta di repressione dei diritti femminili?

Sì, certamente lo è: ogni donna deve avere il diritto di scegliere cosa indossare e come esprimere la propria religiosità.

Lei ha scritto che spesso i funzionari del Partito Comunista Cinese si trasferiscono a vivere nelle case delle donne uigure i cui mariti sono in carcere, nell’ambito di una campagna chiamata delle “famiglie raddoppiate” che mira a mantenere la popolazione uigura sotto lo stretto controllo del regime, e che perciò sono più vulnerabili rispetto agli abusi sessuali: si tratta di repressione dei diritti femminili?

Sì, assolutamente. Le donne sono terrorizzate: se non acconsentissero a tutto ciò che i funzionari del Partito chiedono, loro stesse o i loro cari sarebbero gettati nei campi di internamento, puniti duramente o addirittura uccisi.

A proposito della politica del figlio unico, di contraccezione invasiva e obbligatoria, di sterilizzazioni e aborti forzati, tutti dati di fatto universalmente riconosciuti in Cina, e definiti vergognosamente «garanzia della salute sessuale e riproduttiva», qual è la sua opinione? Viene da pensare che per una donna, specialmente se religiosa, tali imposizioni del Partito siano realmente insopportabili: si tratta di repressione dei diritti femminili?

Penso che tutto ciò sia impossibile da sopportare per qualsiasi donna, che sia religiosa o no. È mostruosamente crudele vedersi strappare i propri figli e la speranza di averne in futuro. Oltre alla crudeltà nei confronti delle donne, si tratta di genocidio.

Sono temi, questi, che riguardano i cavalli di battaglia cari al femminismo di tutto il mondo: mi vesto come voglio, ho rapporti sessuali con chi mi pare, «l’utero è mio e lo gestisco io». Si vede che in Cina per le donne delle minoranze etniche, e non solo per loro, tutto questo non vale. Le femministe nostrane sono cioè pronte a stracciarsi le vesti pur di essere chiamate “ministra” o “sindaca”. Le icone di Hollywood hanno ribaltato l’intero star system con le campagne di denuncia legate al Me too. Eppure, curiosamente, della violazione dei diritti umani delle donne in Cina, cinesi e non, proprio non parlano.

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