Il malato di SLA che ama la vita e zittisce tutti

Un'assistente sociale ha proposto l’eutanasia all’influencer Jordi Sabaté Pons. La sua reazione: «Che schifo…»

Jordi Sabaté Pons

Jordi Sabaté Pons

Last updated on Dicembre 3rd, 2021 at 09:01 am

Mentre in Italia non si spegne il clamore per il caso di «suicidio assistito» annunciato nelle Marche, dalla Spagna arriva una notizia di segno opposto. Per ogni persona che vuole morire, ve ne sono centinaia, forse migliaia che vogliono vivere. Eppure di queste ultime i media parlano poco o nulla. Se però a rifiutare l’eutanasia è un giovane influencer, il meccanismo perverso della cultura della morte va in cortocircuito.

Jordi Sabaté Pons, 37 anni, affetto da SLA da sette, vive a Barcellona ed è un videoblogger piuttosto noto. Su Twitter conta quasi 80mila follower, mentre il suo canale YouTube vanta circa 20mila utenti. I temi che affronta nei video hanno un denominatore comune molto evidente: l’amore per la vita, nonostante la malattia, nonostante la disabilità, nonostante la sofferenza.

Nei giorni scorsi Jordi ha ricevuto in casa una visita non proprio graditissima e l’ha così raccontata in un tweet: «Che bella società che stiamo creando. Oggi è venuta a trovarmi un’assistente sociale. Mi ha chiesto quale fosse la mia volontà nel caso un giorno mi ritrovassi attaccato ad una macchina o fossi costretto ad alimentarmi artificialmente. Ossia così come lo sono ora. Non era cieca. Poi mi ha offerto l’eutanasia. Uno schifo».

Non è scontato che una disabilità così grave non induca il diretto interessato o i suoi familiari alla tentazione della «morte dolce». Sabaté, tuttavia, non ha mai preso in considerazione questa ipotesi. Specie dopo l’approvazione della legge spagnola sull’eutanasia, ha al contrario esplicitato sempre più le proprie posizioni pro life. In questi quattro anni, pur essendo ormai privo della parola e del movimento, lo youtuber catalano è diventato un testimonial nella lotta alla SLA. Grazie al sistema della lettura oculare a raggi infrarossi, ormai da anni sperimentato per le persone affette dalla sua patologia, è in grado di realizzare quelle che lui chiama «interviste con i miei occhi».

Champagne per tutti

I primi tre anni di malattia, Jordi li ha trascorsi «in pellegrinaggio da un medico all’altro». Dolore nel dolore: dopo i primi sintomi la sua fidanzata di allora lo lasciò, rinfacciandogli di aver trascurato la salute. La malattia lo ha costretto a tornare a vivere dal padre, vedovo e anche lui malato. Nessuno specialista riusciva a elaborare diagnosi e cura adeguate. È stato proprio quando gli è stata diagnosticata l’irreversibilità della malattia, che Jordi ha provato «una sensazione di sollievo, perché finalmente sapevo con cosa avrei dovuto convivere e ho rimosso quell’incertezza che non mi lasciava vivere». Nello stesso periodo cruciale, Jordi ha ricostruito la sua vita accanto a Lucia, che poi è diventata sua moglie.

La svolta è stata l’acquisto della macchina che gli permette di comunicare con gli occhi, attraverso un sistema a infrarossi. Un dispositivo costato 12mila euro, tutti pagati di tasca propria, senza l’aiuto né dello Stato né di privati. Intervistato da 20 Minutos, lo youtuber ironizza: «Posso comunicare come chiunque altro, anche se con gli occhi non posso parlare veloce come con la bocca». Suo auspicio, ora, è che le istituzioni pubbliche aiutino i malati come lui a procurarsi macchinari come il suo perché, spiega, «comunicare non è un capriccio, ma una necessità vitale».

Quando gli viene chiesto come faccia a godersi la vita, Jordi, con semplicità, risponde: «Sono felicissimo di essere vivo. Posso vedere, sentire, fare l’amore, assaggiare un buon cava», il tipico champagne catalano, «direttamente attraverso lo stomaco, stare con i miei cari. La vita è un dono e mi godo le cose semplici e ogni momento piacevole».

Venendo alla politica, Jordi ritiene «un’atrocità che in Spagna sia stata approvata la legge sull’eutanasia, piuttosto che una legge che ci permette di vivere con dignità o semplicemente di vivere. Attualmente il governo ci aiuta solo a morire, e se scegliamo di vivere e non abbiamo risorse finanziarie per pagare le nostre cure, la nostra unica opzione è la morte». Questo «è terrificante», ha commentato l’influencer, dando del «bugiardo» al premier Pedro Sanchez, che alla vigilia delle elezioni di due anni fa, «si è impegnato pubblicamente con me ad aiutare i malati di SLA a vivere» ed ora, legalizzata l’eutanasia, «l’unica cosa che ci offre è la morte».

Jordi spende circa 6mila euro mensili per le proprie cure infermieristiche e sanitarie: ci sta riuscendo grazie alla generosità dei suoi familiari. «Se non fosse stato per loro», afferma, «sarei stato costretto a morire molto tempo fa». La pensione d’invalidità che riceve, gli permette a stento di coprire l’affitto dell’abitazione. «Lotto per i diritti dei malati di SLA che non hanno risorse per vivere», ribadisce. «Ogni volta che ci penso mi ribolle il sangue».

Pur essendo un «cattolico poco praticante», Jordi afferma senza mezze misure: «Chi si dichiara credente e, quando ha una malattia o gli capita qualche avversità, perde la fede, significa che quella persona non ha mai avuto fede e il suo comportamento è molto infantile, egoista ed egocentrico».

In Francia e in Italia

Quello di Jordi Sabaté è uno dei non molti endorsement contro il «suicidio assistito» e l’eutanasia da parte di malati gravi. Nella sua peculiare condizione di oncologa e paziente oncologica, la 74enne francese Sylvie Menard ha visto la propria prospettiva sulla vita cambiare radicalmente con il sopraggiungere della malattia. «La morte», spiegò, «diventa reale e realizzi che hai una gran voglia di vivere, che vuoi continuare a lottare anche nella condizione più sfavorevole», dichiarò alcuni anni fa la dottoressa Menard. Lei stessa ha sempre sconsigliato a chiunque di fare testamento biologico. «Se un principio di demenza senile o di alzheimer vi toglierà la capacità di intendere e di volere, il medico dovrà obbedire a quello che avevate scritto e non curarvi più».

In Italia, sono saliti alla ribalta delle cronache due casi: Max Tresoldi e Salvatore Crisafulli. Tresoldi uscì dal coma nel 2001 dopo dieci anni di stato vegetativo. Nel 2013 la sua vicenda fu al centro di un’accesa polemica in occasione di una puntata de La vita in diretta su Raiuno: la conduttrice Alda D’Eusanio lasciò intendere che quella di Tresoldi fosse una vita non degna di essere vissuta, scatenando l’ira della madre del giovane milanese. Al catanese Salvatore Crisafulli (1965-2013), definito da alcuni il «Terry Schiavo italiano», a seguito di un incidente nel 2003, fu diagnosticato erroneamente un «coma vegetativo permanente». Crisafulli, in realtà, era un locked-in, ovvero una persona intrappolata nell’immobilità del proprio corpo, impossibilitata a comunicare, ma cosciente. «Ero in coma ma sentivo tutto», scrisse nell’autobiografia Con gli occhi sbarrati. «Non potevo parlare o fare movimenti. E per farmi capire non restava che piangere». Negli ultimi dieci anni di vita, Salvatore, aiutato dal fratello Pietro, lottò in tutti i modi per migliorare la propria condizione fisica, tentando anche una cura a base di cellule staminali. Morì a 47 anni, dopo che la famiglia, totalmente abbandonata dalle istituzioni, fu tentata di portarlo in Belgio per l’eutanasia. Ipotesi, quest’ultima, che, in cuor proprio, Crisafulli non prese mai in considerazione.

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