Last updated on aprile 30th, 2020 at 12:41 pm
«Il più grande nemico del progredire della scienza non è l’ignoranza, è l’illusione di certezza»: una frase da scolpire nelle menti, che aiuta a spalancare l’orizzonte sul tema del cambiamento climatico, ma non solo. La “non democraticità della scienza” è un principio che, invece di essere arrogantemente affermato per zittire qualsiasi voce in contrasto con la propria, dovrebbe piuttosto spingere alla continua verifica sperimentale delle ipotesi, anche e soprattutto di quelle maggioritarie, che, come insegna la storia, sono «miseramente cadute perché sperimentalmente non sostenibili». Per esempio l’ipotesi geocentrica dell’astronomo greco Claudio Tolomeo (100 ca.-175 ca.). Lo ribadisce con forza Ernesto Pedrocchi nel suo testo Il clima cambia. Quanta colpa ne ha l’uomo? (Esculapio, Bologna 2019).
Pedrocchi è stato docente di Termodinamica applicata e di Energetica al Policlinico di Milano per più di 50 anni, nonché promotore in Italia della Laurea in Ingegneria energetica. Contro l’ideologia delle lobby della carbon free economy, ricorda che «la modalità tipica di avanzamento nelle conoscenze scientifiche consiste nella elaborazione di dubbi»: il dubbio che il professore si pone, e che affronta presentando dati sperimentali scientificamente rigorosi e inoppugnabili, riguarda la correlazione tra le emissioni di CO2 antropiche e le variazioni climatiche.
L’ideologia dell’Anthropogenic Global Warming
Come afferma Guido Possa, ex viceministro dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca, nella presentazione del libro, «la questione del clima è sempre stata una questione scientifica», ma «[…] sul finire degli anni ’80 del secolo scorso è diventata rapidamente una questione politica. L’incremento della temperatura media globale sulla Terra verificatosi in quegli anni portò infatti politici e diplomatici occidentali, in particolare gravitanti nell’ambiente ONU, a preoccuparsi di ipotizzare che la causa del riscaldamento globale in atto fosse antropogenica». Da qui la creazione dell’Intergovernamental Panel on Climate Change (il foro scientifico creato nel 1988 da due organismi delle Nazioni Unite, l’Organizzazione meteorologica mondiale e il Programma delle Nazioni Unite per l’Ambiente per lo studio dei mutamenti climatici) giunto a concludere che le attività umane (e in particolare l’uso di combustibili fossili) siano all’origine del riscaldamento del pianeta, con catastrofiche previsioni di aumento della temperatura entro il 2100 e la convinzione dell’urgenza di radicali «interventi di mitigazione».
Dagli inizi degli anni 1990, questa ideologia, definita «Anthropogenic Global Warming», si è diffusa in tutto il mondo – a partire dalla Conferenza dell’ONU sul clima svoltasi a Rio de Janeiro nel 1992 – portando, come spiega Pedrocchi, ad «accordi internazionali di contenimento delle emissioni antropiche di gas serra, in particolare della CO2, dando per scontata come base l’ipotesi che essa fosse responsabile del cambiamento climatico in atto». Con una connotazione sempre meno scientifica e sempre più politica, «il problema del clima globale, invece di restare un problema scientifico su cui continuare a studiare per migliorare le conoscenze, è diventato un mito ideologico, che ha raggiunto il suo apice nell’accordo di Parigi» del 2015, con il quale «i paesi sviluppati sono e saranno chiamati a contenere le loro emissioni di CO2 con grave impegno economico».
La «strategia dell’adattamento»
Nel suo rigorosissimo discorso, avallato da un’impressionante quantità di dati e fonti, Pedrocchi illustra invece come «l’attuale periodo di riscaldamento» non sia «[…] un caso anomalo» e come vi siano «[…] stati sicuramente periodi più caldi e con variazioni più brusche». Le emissioni di CO2 legate ad attività antropiche costituiscono infatti solo «circa il 5% delle totali immissioni in atmosfera […] e si rileva un aumento regolare praticamente eguale tra i due emisferi», cosa che «[…] induce a pensare che l’aumento sia più dovuto a fenomeni naturali quali il concomitante riscaldamento degli oceani». Perciò le emissioni antropiche di CO2 «alla luce delle conoscenze attuali non costituiscono un problema per il clima globale che dipende essenzialmente da fenomeni naturali». Quanto agli eventi estremi – cicloni, tifoni, uragani, siccità e intense precipitazioni, e così via – venduti dai mass media come “dovuti all’uomo”, non esiste alcuna «evidenza a livello globale di aumento di intensità e frequenza» di tali eventi.
Alle «strategie di mitigazione» delle emissioni di CO2, «tentativo prettamente politico di riuscire ad avviare una “governance mondiale” ispirata a principi progressisti», Pedrocchi oppone la «strategia dell’adattamento»: di fronte al rischio di «disperdere un’enorme ricchezza solo a vantaggio della lobby della Carbon Free Economy», appare decisamente preferibile «identificare gli effetti dannosi più probabili conseguenti ai possibili cambiamenti climatici: studiare, progettare e realizzare interventi graduali di adattamento e prevenzione per diminuire la vulnerabilità delle popolazioni». L’adattamento pare davvero un’alternativa valida, in grado di portare benefici sicuri «per contenere gli eventuali danni derivanti dai cambiamenti climatici […] a prescindere dalla causa dell’eventuale riscaldamento globale, sia essa naturale o antropica».
È alla fine del libro che si gusta appieno la verità del proverbio yiddish posto in apertura del volume: «la verità non muore mai, ma vive una vita grama».
Commenti su questo articolo