I drammi, in Ucraina, dell’«utero in affitto». Anche prima della guerra

Uno studio della Princeton University metteva in guardia già nel 2020 dai rischi legati alla «maternità surrogata»

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Le madri e i bambini che soffrono a causa della guerra in corso attualmente in Ucraina, pagando come sempre accade in caso di conflitto il prezzo più alto fra la popolazione civile, sono quotidianamente su tutte le prime pagine, in tutti i telegiornali, su ogni sito web che si occupi della vicenda. Anche «iFamNews» se ne è occupata, da un punto di vista particolare: quello dei bambini concepiti tramite fecondazione medicalmente assistita e poi trasferiti nel ventre delle madri cosiddette «surrogate», spesso piegate dalla povertà, destinati a coppie occidentali ricche o almeno benestanti. Affermarlo non significa ridurre strumentalmente la realtà a una dinamica terzomondista o pietistica, bensì, semplicemente, prendere atto di quanto accade e di ciò che in effetti è la pratica dell’«utero in affitto», o «maternità surrogata», o «gestazione per altri».

Lo evidenziava già nel 2020, del resto, uno studio importante condotto da Emma Lamberton, all’epoca candidata al master in Sviluppo Internazionale nell’Università di Pittsburgh, negli Stati Uniti d’America, esperta riconosciuta per le ricerche sulla human security nelle regioni post-sovietiche e giornalista. Il suo saggio si intitola Lessons from Ukraine: Shifting International Surrogacy Policy to Protect Women and Children ed è stato pubblicato sul Journal of Public and International Affairs edito dalla Princeton University.

Ciò che Emma Lamberton metteva in luce, all’indomani della chiusura di Paesi come India, Thailandia e Nepal a causa di gravi scandali legati alla corruzione e allo sfruttamento delle madri e dei bambini nati tramite la pratica dell’«utero in affitto», è che l’Ucraina anche prima dello scoppio del conflitto non rappresentava uno scenario affatto sicuro. Non per le madri né per i bambini. E neppure, paradossalmente o forse no, per le coppie committenti.

L’Ucraina è giunta a rappresentare un quarto del mercato mondiale della maternità surrogata, dove i Paesi attivi sono pochissimi e, fra quelli più sviluppati, compaiono solo gli Stati Uniti. «I potenziali genitori che guidano il mercato globale sono principalmente residenti negli Stati Uniti, in Australia, nel Regno Unito, nei paesi nordici e in altri paesi dell’Europa occidentale», scrive la Lamberton. Per il 40% si tratta di coppie omosessuali, specie dopo che gli Stati Uniti nel 2015 e l’Australia nel 2017 hanno reso legale il matrimonio fra persone dello stesso sesso.

«Le società che si occupano di maternità surrogata gestite dall’Ucraina a scopo di lucro lavorano e traggono vantaggio da un mercato mondiale annuale stimato in 6 miliardi di dollari statunitensi». Fra queste, particolarmente attiva è la BioTexCom, di cui «iFamNews» ha già raccontato in relazione ai neonati e alle gestanti che fanno parte di tale giro di affari e che attualmente vivono riparati nei bunker di Kiev, in attesa dei committenti che possano raggiungerli oppure di fuggire dal Paese in guerra. La BioTexCom nel 2020 deteneva «[…] il 25% del mercato globale della maternità surrogata. […] Sebbene operi in Ucraina, non è registrata come società ucraina. Avvocati e funzionari ucraini per questo non sono stati in grado di regolamentare la società […]. Funzionari ucraini hanno temporaneamente posto il fondatore, Albert Tochilovsky, agli arresti domiciliari nel 2018, dati sospetti credibili di traffico di bambini ed evasione fiscale. Tuttavia, nessun procedimento è stato avviato contro di lui».

Anche a prescindere dalle condizioni disperate attuali dell’Ucraina i rischi dell’utero in affitto, sottolineati da Emma Lamberton nel suo saggio, sono quelli che ciascuno può immaginare e che vanno addirittura al di là di ogni questione etica o di principio.

Bambini venduti e comperati, come ha evidenziato il caso di un neonato il cui DNA non coincideva con quello dei genitori biologici che hanno fornito ovociti e sperma, forse per un errore procedurale o forse perché il figlio biologico della coppia non era mai nato, biecamente sostituito da un piccolo trafugato chissà dove e chissà come. Bambini abbandonati dalle coppie committenti perché disabili oppure perché non vengono avvertiti come “propri”. Donne sfruttate e abusate, spogliate di ogni dignità umana e personale, rese semplici incubatrici rinchiuse in cliniche-lager come galline ovaiole in batteria. Donne che risentiranno per sempre del contraccolpo fisico e psichico di questo gesto e del figlio strappato dalle loro viscere. Donne che si oppongono dopo la nascita del bambino e cercano di impugnare il contratto e di tenere con sé il piccolo, 25 ogni anno, secondo i dati. Famiglie imbrogliate e prese per fame, se è vero che al termine della gravidanza ricevono il compenso di «[…] 350 dollari, sebbene il costo per i clienti sia compreso tra i 45 e i 55mila». Coppie committenti a loro volta turlupinate, cui in caso di insuccesso delle pratiche mediche nessuno spiega come e perché i loro embrioni non si siano trasformati nei meravigliosi bebè che pensavano di ottenere, quale fine abbiano fatto, cosa diamine sia successo dei loro figli.

Nel saggio, Emma Lamberton evidenziava la necessità di politiche condivise a livello mondiale, per regolamentare l’«utero in affitto» in senso globale. «iFamNews», invece, preferisce una posizione più drastica: l’utero in affitto, semplicemente, non dovrebbe essere legale in nessun luogo.

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