Last updated on Agosto 24th, 2021 at 02:38 pm
Lady Oscar. Manga scritto e disegnato dalla fumettista giapponese Riyoko Ikeda, anime per la tivù, film per il cinema e musical bicipite, essendo capace di attirare tanto a Oriente quanto a Occidente.
Narra le vicende di una immaginaria giovane aristocratica d’Oltralpe, Oscar François de Jarjayes, ai tempi della Rivoluzione Francese (1789-1799), la quale, cresciuta dal padre come un maschio, come un maschio vive veste e tira di fioretto, sino a giungere a capo della Guardia reale a protezione della regina Maria Antonietta, l’austriaca (1755-1793). Leale e fedele a le Roi e alla sua regina sino all’ultimo, tanto da spezzare di fatto più di una lancia in difesa pop dell’Antico regime, benché nell’Ottantanove si schieri dalla parte dei rivoluzionari, muore, già debilitata dalla tisi, proprio nei tafferugli del 14 luglio 1789. E, oltre a una sigla musicale che chi scrive potrebbe cantare a memoria, la trama narra pure le vicende della corte di Francia ormai agonizzante su se stessa, di un re che amava creare lucchetti e serrature, del conte svedese Hans Axel von Fersen di cui sia lady Oscar sia la regina si innamorano, delle presunte favorite del sovrano, di intrighi e banchetti e danze e parrucche incipriate.
Il volto più popolare della giovine spadaccina è decisamente quello del serial prodotto fra 1972 e 1973 in Giappone, e sbarcato in Italia un decennio dopo, che, puntuale, ogni luglio viene riesumato dalle teche della televisione per essere, puntuale ogni luglio (ma con incalzare crescente in maniera proporzionale all’occupazione degli spazi socio-culturali della propaganda LGBT+), costretto nei panni del transgenderismo. Ma alla giovane quei panni vanno tanto corti quanto lo sono le gambe delle bugie.
Sì, il personaggio si contrappose a una certa modalità stereotipata e strappalacrime di presentare le eroine femminili dei cartoni animati, tutte dolci, buone, remissive, spesso vittime, spessissimo orfane: Peline, Charlotte, la crocerossina per antonomasia Candy Candy. Ma semmai, lady Oscar potrebbe rappresentare alcune delle istanze del femminismo più fiero, non certo del mondo trans, tanta è la risolutezza che ella mostra in combattimento, biondissima e algida nelle decisioni che attengono al suo mestiere e al rango e al sacrificio. E però i tempi sono così cambiati da avere sfumato, se non persino sfrangiato, anche questo tema.
In nessun modo, infatti, si avverte l’inclinazione a quella confusione «di genere» che da allora, ma sempre più, le si vorrebbe attribuire. Lady Oscar è un’eroina femminile che vive come un uomo e che finge di essere uomo perché spinta, addirittura costretta dalle circostanze e dalle esigenze della casata. La trama e le immagini raccontano solo questo: una donna a tutti gli effetti, naturalmente innamorata di un uomo. Anzi, persino di due, se nel finale confessa di amare in realtà Andrè, amico d’infanzia, sodale di mille avventure soldatesche.
Né è l’unica, lady Oscar, ad avere vestito i panni di uomo in tempi e in circostanze e in luoghi in cui essere donna era troppo difficile e soprattutto confinava i movimenti alla cucina, al salotto, al limite alla camera da letto: donne in abito di uomo senza né mischiare né confondere il genere, il sesso e soprattutto gli spettatori.
Per esempio Mulan, la giovinetta dell’antica Cina il cui personaggio è ispirato alla leggenda di Hua Mulan narrato da un canto popolare le cui origini risalgono a quasi 1600 anni fa. Quando il suo Paese viene attaccato dagli Unni, la ragazza si sostituisce al padre, anziano e malato, per rispondere alla chiamata alle armi dell’imperatore, celando la propria femminilità e sgominando infine un temibile e terribile comandante unno. Anche in questo caso, non manca la storia d’amore: con il principe.
Tratto da un romanzo dello scozzese Robert Louis Stevenson (1850-1894), ambientato nell’Inghilterra nella Guerra delle due rose (1455-1487), la produzione dello sceneggiato televisivo RAI La freccia nera, del 1968, è tutta italiana e vede una giovanissima Loretta Goggi, Joan, vestire panni maschili per esigenze di nascondimento e di copione. Ma pure in questo caso Joan resta sempre e solo una ragazza, e anzi la storia d’amore fra lei e il giovane Dick Shelton percorre tutta la serie senza un briciolo di gender o di malizia nemmeno per sbaglio pur in quegli anni turbolenti, se non torbidi.
Mutando registro e tono, pure Éowyn, principessa di Rohan «bella, bella e fredda», ne Il Signore degli Anelli, celeberrima opera di J.R.R. Tolkien (1892-1973), si maschera da uomo per poter combattere nella battaglia ultim(ativ)a. Sotto le spoglie del giovane Dernhelm del Popolo dei cavalli, dama Éowyn sconfigge poi nientemeno che l’orrendo e “invincibile” signore dei Nazgûl. E solo lei può, giacché, secondo la profezia, il principe degli spettri non avrebbe potuto essere vinto «da mano di uomo».
Del resto l’archetipo è (o a noi piace proprio guardarla così) la figura storica eppure e al contempo magnificamente leggendaria di Jeanne d’Arc, Giovanna d’Arco (1412-1431), la pulzella d’Orléans, santa combattente, che l’iconografia tradizionale raffigura con l’armatura, i capelli tagliati alla maschietto, lo sguardo febbrile e lo stendardo con i gigli di Francia di chi lotta per il Signore prima che per il mondo. Praticamente ce n’è una statua in ogni chiesa francese, anche la più sperduta, e al cinema la sua mascolinità-con-una-ragione è stata rappresentata alla perfezione da bellezze talentuose e indubitabilmente femminili come Ingrid Bergman (1915-1982) o Milla Jovovich.
In nessuno di questi esempi vi è confusione di ruoli o di sessi, e nessun ragazzo, nessuna ragazza, nessun bambino ma nemmeno nessun grande indugia qui minimamente in presunte «disforie di genere». Tranne che quando comincia il bombardamento a tappeto del dubbio, quella serpe che s’insinua quando si abbassa la guardia e che molti hanno l’interesse ad allevare in seno. Giù le mani, insomma, da lady Oscar, spada e scudo di un mondo in cui l’abito fa così tanto l’uomo e la donna che a volte fingere serve a depistare i nemici.