Last updated on Settembre 25th, 2020 at 01:41 am
La natura ha donato al criceto rapidità e agilità. Ma da quando è diventato un animale da compagnia, le sue doti si sono rivelate fatue. Il roditore non è libero di scorrazzare nei campi e così passa le giornate a correre ripetutamente sulla ruota, dentro una gabbia. Attraverso l’attività fisica si mantiene in forma, rilascia endorfine ed evita di cadere in depressione. La sua, tuttavia, è una corsa da schiavo, serve solo a una mera sopravvivenza a beneficio dello sguardo del padrone.
Paragonare la vita del criceto domestico a quella dell’uomo contemporaneo è tutt’altro che lusinghiero. È un esercizio severo, che compie nel libro, dal titolo eloquente, La sindrome del criceto, Alberto Contri, docente di Comunicazione sociale nell’Università IULM di Milano, per vent’anni presidente di Pubblicità Progresso. Contri è un conoscitore profondo delle dinamiche della comunicazione nei media, nelle imprese, nei gangli del potere. Intervistato da “iFamNews”, spiega come siamo diventati una massa di criceti e indica una possibile via d’uscita dalla gabbia ‒ tecnologica e politicamente corretta ‒ in cui siamo rinchiusi.
Professore, le misure di contenimento adottate quasi ovunque nel mondo durante la pandemia hanno alimentato questa sindrome?
Premetto che ho iniziato a scrivere il pamphlet ‒ mi piace definirlo così ‒ prima della pandemia, ma la sua è un’osservazione pertinente. Al di là del giudizio di ognuno sulle misure che sono state adottate, è indubbio che tra gli effetti collaterali ci sia anche una minore interazione sociale tra le persone e una maggiore presenza del digitale: proprio come criceti, si è sempre più soli, chiusi nella propria gabbia, a correre sulla propria ruota…
…e sotto lo sguardo di un Grande Fratello. L’intelligenza artificiale ci introduce in un futuro distopico, «transumano»?
Quando l’intelligenza artificiale è un supporto all’intelligenza umana è molto utile. Un esempio: oggi un medico può consultare migliaia di diagnosi in un minuto. Ma quando all’intelligenza artificiale vengono affidati ruoli decisionali, propri dell’uomo, si rischia grosso.
Cosa si rischia?
Mi ha molto colpito una dichiarazione dell’amica Stefania Bandini, direttrice del Complex Systems & Artificial Intelligence Research Center dell’Università Bicocca di Milano: «Viviamo nell’oscillazione tra una visione utopica dell’intelligenza artificiale, con le macchine al servizio degli uomini, e la visione distopica di tanta filmografia, che ci ha mostrato quanto possano essere minacciose per l’umanità alcune applicazioni dell’Intelligenza Artificiale». Se affidiamo alle macchine le decisioni, tarpiamo le ali della creatività, diventiamo succubi di un modello omologante imposto dai GAFA: Google, Apple, Facebook, Amazon.
Oggi sta avvenendo questo?
Sì. Siamo in una società orwelliana. Le nostre preferenze sono indirizzate dalla pubblicità, la nostra autonomia è sempre più erosa dai condizionamenti mediatici, le opinioni sgradite sono censurate. È così che l’uomo perde la propria identità.
C’è un nesso tra questa perdita d’identità e la diffusione dell’ideologia gender, di cui scrive nel libro?
Certamente. Il gender favorisce la trasformazione delle persone in esseri neutri, senza identità né storia, svincolati dalle leggi della natura e guidati dalle macchine.
Il gender è un’ideologia che sta pervadendo la cultura dominante?
Ideologia gender e politicamente corretto rappresentano un binomio che ha ormai oltrepassato il senso del ridicolo. Le faccio due esempi tra i vari che cito nel mio pamphlet: la British Medical Association ha invitato i suoi dipendenti a non chiamare futura mamma una donna incinta, «per rispetto degli uomini intersex o trans che potrebbero essere gravidi»; la Procter & Gamble ha deciso di eliminare il simbolo di Venere dalle confezioni degli assorbenti, «per includere i clienti che mestruano ma non si identificano come donne». Ricordo poi il caso di J.K. Rowling, violentemente attaccata per aver detto che il sesso conta più del genere.
Perché le multinazionali si fanno promotrici delle istanze LGBT+?
Accenture, la più grande impresa di consulenza strategica al mondo, ha pubblicato due anni fa uno studio secondo il quale promuovere la causa LGBT+ aiuta a vendere. C’è poi un’altra ragione: sempre più persone omosessuali ricoprono ruoli importanti all’interno di multinazionali, media e istituzioni. Quindi, mi chiedo: dov’è la discriminazione? C’è davvero bisogno del «Ddl Zan»?
Intravede un rischio per la libertà d’espressione?
Il rischio è che venga contratta ancora di più, perché già oggi viviamo sotto l’egida del politicamente corretto che limita la libertà d’espressione. Il doveroso rispetto verso le scelte sessuali d’ognuno si trasforma spesso in un attacco alla famiglia tradizionale, l’unica in grado di perpetuare naturalmente la specie umana. È considerato scorretto affermare che l’utero in affitto è una forma di sfruttamento nei confronti della donna, nonostante anche gruppi di lesbiche se ne stiano accorgendo.
Che ruolo svolgono i media in questo contesto?
Siamo in una sorta di tenaglia. Da un lato c’è l’informazione mainstream che è ormai pilotata dagli investimenti pubblicitari. Dall’altro ci sono i social network, che si assumono il diritto di censurare i post o le notizie in base a un programma di intelligenza artificiale.
Nel suo pamphlet scrive dei GRU, Gruppi di Resistenza Umana: indicano al criceto una via di uscita dalla gabbia?
È degradante vedere che la competenza non conti più niente. Io, che ho studiato tutta la vita, mi sento umiliato dal fatto che a un concorrente del Grande Fratello vengano dati ruoli di comunicazione fondamentali a livello istituzionale. È una conseguenza del concetto «uno vale uno». Incontro tantissime persone insofferenti a questa situazione: insegnanti, imprenditori, professionisti, tecnici, artigiani, operai. I GRU sono un movimento pre-politico, che raggruppa tutte queste categorie ed ognuna fa delle proposte per rilanciare la competenza. Abbiamo scritto un manifesto e confidiamo che le adesioni continuino a crescere.
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