Last updated on Febbraio 15th, 2020 at 12:20 am
L’inverno demografico cinese ha ragioni complesse quanto il Paese che ne è al tempo stesso vittima e responsabile. Fattori economici, politici, sociali e culturali si intrecciano fittamente a creare un nodo difficile da sciogliere, anche per analisti navigati. Quel che però tristemente emerge da questo panorama è che non solo in Cina nascono pochi bambini, ma che soprattutto nascono poche bambine. Dove sono le bambine cinesi che mancano all’appello?
Il rapporto pubblicato nel 2019 dalla National Academy of Sciences of the United States of America parla chiaro: nel mondo l’indice sex birth ratio (SBR), cioè la proporzione tra i sessi nelle nascite, risulta “inspiegabilmente” sbilanciato a favore dei maschi e ben 23 milioni di bambine nel mondo sono state “perdute”. Ebbene, 22 di questi 23 milioni di mancanze riguardano, equamente divise, India e Cina.
In passato ne ha parlato a lungo una giornalista sino-britannica Xinran, in un libro documentato e toccante, Le figlie perdute della Cina, che analizza e racconta con lucidità il raccapriccio dell’aborto selettivo ai danni delle bambine.
La società cinese è ancora oggi vittima di condizionamenti culturali stritolanti, che rendono assolutamente preferibile un figlio maschio rispetto a una figlia: la necessità di forza lavoro abbondante, robusta ancorché poco qualificata; gli usi familiari per cui la femmina lascia la casa paterna per “servire” in quella del marito; l’incombenza affidata ai maschi di provvedere ai genitori anziani dal punto di vista economico. Tutto concorre a far sì che la figlia femmina non desiderata sia nel meno tragico dei casi abbandonata alla nascita, ma più spesso abortita.
Il silenzio delle femministe
Non è certo un fenomeno solo cinese, ma altrettanto certamente Pechino non ha legiferato, se non in modo molto blando, per impedire la pratica dell’aborto selettivo per genere.
Sono innegabili inoltre le responsabilità del Partito Comunista Cinese e della sua folle politica del “figlio unico”: istituita da Deng Xiaoping (1904-1997) nel 1980 e abrogata a partire dal 2015, la legge imponeva alle coppie sposate di avere un figlio soltanto, salvo limitate eccezioni in alcune zone rurali e fra le minoranze etniche, con la coda tragica di sterilizzazioni e aborti forzati di cui ormai da tempo anche l’Occidente è a conoscenza. Solo da pochi anni, preoccupato dal crollo demografico, il regime ha modificato la legge, permettendo perciò alle coppie di avere due figli. A quanto pare, però, il trend delle nascite femminili non si è invertito.
Il rapporto fra uomini e donne è dunque totalmente sbilanciato nel tempo e il numero di maschi in età adulta supera di gran lunga quello delle femmine, portando fra l’altro ad aberrazioni quali l’”importazione” di spose (o talvolta di povere donne destinate al mercato della prostituzione) dai Paesi stranieri, per esempio dal Pakistan.
Nelle campagne cinesi arretrate del passato, accanto al letto della partoriente la levatrice posava un secchio pieno d’acqua, che impietosamente accoglieva i primi vagiti e gli ultimi delle bambine rifiutate. Oggi i test prenatali sono sempre più precoci e sofisticati, e sono diffusi in tutto il Paese. Non dovrebbero servire a individuare in anticipo il sesso del nascituro, ma è quello che accade. E, tragicamente, in Cina l’aborto non è certo un tabù.
Ciò che dovrebbe scandalizzare e risvegliare le coscienze delle agguerrite femministe del nostro Occidente, però, suscita ben poca eco. Davvero la deriva antropologica in atto non risparmia alcuna vittima.
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