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Farmaci insostenibili: esiste un diritto alla salute?

Non è una questione solo per addetti ai lavori. È anzitutto un problema di giustizia sociale

Martina De Nicola di Martina De Nicola
05/03/2020
in Scienza
144
Reading Time: 5 mins read
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Last updated on marzo 6th, 2020 at 03:43 am

È notizia recente l’arresto di due persone che, a maggio, si erano introdotte nell’ospedale di Orbassano, in provincia di Torino, per rubare confezioni di farmaci chemioterapici molto costosi per un valore complessivo di 1,3 milioni di euro. Stessa cosa era accaduta prima in luglio a Milano e poi in agosto a Cagliari, dove l’ammontare dei furti di farmaci antitumorali, sempre costosi e sempre difficili da reperire se non in ambito ospedaliero, ammontò, rispettivamente, a 400mila e a 600mila euro. Indubbiamente la refurtiva era destinata al mercato nero. Ma, al di là della mera cronaca, la questione dei medicamenti costosi e della loro reperibilità è tema ben più complesso, che cela un dibattito su cui molti Paesi occidentali si stanno ultimamente concentrando.

Grazie allo sviluppo della ricerca, sono stati introdotti sul mercato alcuni farmaci innovativi dai costi, appunto, “insostenibili”. Tanto per fare un esempio, sono disponibili superfarmaci con costi che arrivano a sfiorare i 100mila euro a ciclo terapeutico. L’Italia si è già trovata a trattare l’argomento in particolare per i nuovi antivirali ad azione diretta, i cosiddetti «Direct-Acting Antivirals» (DAAs), adatti a trattare pazienti affetti da epatite C. È indubbio che questa nuova terapia, estremamente costosa, abbia trasformato completamente il modo di trattare e di curare questa patologia, ma rimane centrale il problema dei costi. L’alto costo mette infatti a dura prova la governance sanitaria , che, anche a causa della scarsità di risorse in cui spesso è costretta a muoversi, si trova impossibilitata a offrire il ciclo completo di un trattamento a tutti i pazienti. Se non è però il sistema sanitario nazionale o regionale a pagare le spese delle cure di questi nuovi trattamenti, sorge immediatamente un altro problema: è lecito lasciare al privato, al singolo, la possibilità di accedere o meno alle cure suddette, vincolate, di fatto, alle capacità economiche di ciascuno? È moralmente accettabile che solo pochissimi tra i più ricchi possano permettersi l’accesso a queste cure costose?

Innovativi? No, nuovi

Prima di tutto c’è da chiedersi cosa voglia dire esattamente che un farmaco è insostenibile. Secondo un articolo scritto da L.B. Saltz, del Dipartimento di Medicina del Memorial Sloan Kettering Cancer Center di New York, su Jama Oncology nel 2016, una buona definizione di insostenibile potrebbe essere il «non essere in grado di essere mantenuto e supportato nel futuro, specialmente senza causare danno o esaurimento di una risorsa». Nel caso specifico, vuol dire che un farmaco, in base al costo e all’efficacia, non può essere supportato dal sistema sanitario o può esserlo solo in parte. Inoltre va indagata la questione della proporzionalità tra l’alto costo e l’innovazione reale ed effettiva del preparato.

Sempre secondo Saltz, per valutare i benefit che una nuova terapia farmacologica apporta al trattamento di una certa patologia, andrebbe valutata non solo l’efficacia sul paziente, ma anche la tossicità, i cosiddetti effetti collaterali, e, ovviamente, i costi. Saltz infatti sottolinea che il valore di una terapia è determinato anche dalla possibilità che un paziente abbia di accedervi in maniera abbastanza semplice e il costo alto è un dunque limite enorme. Basti pensare che negli anni 1970 una terapia oncologica costava circa 170 dollari statunitensi al mese, mentre dal 2014 si attesta intorno ai 10mila.

Questo incremento dei costi di trattamento, riscontrabile su diversi farmaci utili a patologie differenti, corrisponde però davvero a un incremento dell’innovazione del trattamento medesimo?

Secondo un altro studio, sempre pubblicato su Jama Oncology, di 51 farmaci introdotti sul mercato ed esaminati tra il 2009 e il 2013, soltanto 21 possedevano nuovi meccanismi di azione farmacologica. E, oltretutto, l’alto costo non era strettamente correlato all’efficacia dell’azione: «I nostri risultati suggeriscono che i modelli di prezzo corrente non siano razionali, ma riflettano semplicemente ciò che il mercato sosterrà». Il costo di questi farmaci analizzati appare quindi del tutto indipendente dal guadagno apportato per ciascun singolo paziente in termini di sopravvivenza e di miglioramento rispetto all’evolversi della malattia. In parole povere, molti di questi farmaci, più che realmente innovativi, sono semplicemente nuovi, ossia farmaci simili ad altri già esistenti, che vengono immessi sul mercato con nomi nuovi, per diversificare l’offerta, ma che non apportano significativi cambiamenti di trattamento terapeutico. In questo caso il costo maggioritario, che a volte supera di tre volte il costo del farmaco già esistente, non sarebbe quindi giustificato.

Non tutto a tutti, ma a tutti quanto necessario

Pur consapevoli che l’industria farmaceutica risponda a leggi di mercato ben precise, bisogna capire se e come un sistema sanitario sia tenuto ad acquistare o rimborsare farmaci più o meno efficaci e altamente costosi. La questione dei costi rimane quindi centrale e determinare, in assenza di risorse illimitate, fino a che punto una società sia disposta a pagare per una terapia estremamente costosa di cui possa beneficiare solo un gruppo ristretto di pazienti, è un dibattito che non riguarda solo soggetti di area medica. È anzitutto un problema di giustizia sociale. Anzi, più precisamente di giustizia distributiva, che in ambito strettamente sanitario, come ricorda un articolo pubblicato su Medicina e Morale, deve affrontare necessariamente tre questioni: quante e quali risorse destinare al settore sanitario, dove allocarle, in che ambito e soprattutto come ripartirle in maniera oculata, e infine distribuire in maniera equa, per necessità, le risorse disponibili. Non tutto a tutti, ma a tutti quanto necessario.

Tutti i modelli fin qui proposti per risolvere l’annosa questione a partire dal risk sharing, ossia un rimborso parziale del costo del trattamento effettuato dallo Stato per i pazienti idonei alla terapia in base all’efficacia ottenuta a trattamento concluso, costringono a domandarsi quanto una società sia disposta a pagare per la salute di ogni singolo membro. Perché è chiaro che, se si investe un’ingente somma di denaro pubblico per trattare una singola patologia per un gruppo preciso e ristretto di pazienti, si usano risorse che potrebbero essere impiegate altrove, magari per un numero maggiore di bisogni sanitari. Quando le risorse finanziarie destinate alla salute sono limitate, le scelte su come e dove esse verranno investite, rimane centrale. Ma il problema non si esaurisce solo attraverso una politica sanitaria precisa. Accanto a essa infatti, emerge un’altra questione relativa al problema: la sua dimensione etica.

La questione è etica perché alcune patologie possono derivare anche da comportamenti e da abitudini sbagliate assunte dal singolo nel tempo, chiamando dunque in causa la responsabilità di ciascuno. È questione etica perché l’interesse economico, sia il guadagno delle case farmaceutiche sia la spesa della governance, decide e determina chi possa realmente rimettersi in salute e chi no.  È questione etica perché spesso riguarda l’attenzione e la cura che si ha dell’ambiente in cui si vive, cofattore determinante nell’insorgenza di moltissime patologie. Ed è infine questione etica perché riguarda la persona e la sua salute, il concetto di vita a esse collegato e la possibilità di esprimere la vita nella propria interezza esprimendo tutti se stessi.

Tags: medicinamercatoservizio sanitario nazionalewelfare state
Martina De Nicola

Martina De Nicola

Laureata in Scienze della Comunicazione e Marketing, Martina De Nicola ha approfondito l’argomento nell’Università di Karlstad, in Svezia, e vanta lunga esperienza lavorativa nel campo della promozione aziendale. Baccalaureato in Scienze Religiose nell’Università Pontificia della Santa Croce di Roma e dottore di ricerca in Bioetica nell’Università Cattolica del Sacro Cuore pure di Roma, è stata a lungo ricercatrice nell’Istituto di Bioetica del medesimo ateneo, dove oggi insegna Sociologia della famiglia e Bioetica. Madre di due bambini, vive ai Castelli Romani.

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