Last updated on Febbraio 17th, 2020 at 02:39 pm
I numeri dicono che in Italia si tolgono la vita circa dieci persone al giorno, in calo rispetto a vent’anni fa. Eppure questo dato lascia senza parole e si resta ancora più sconcertati quando a togliersi la vita è un ragazzo, cioè una persona in cui l’anelito per la vita è particolarmente intenso. Aldilà delle cifre si sa che recentemente la città di Monza ha dovuto fare i conti con due liceali che, nel giro di un paio di settimane, hanno deciso di uccidersi. I due ragazzi frequentavano la stessa scuola e, nonostante i due episodi siano slegati, l’intera comunità scolastica si sta interrogando, anche con l’ausilio di esperti e di psicologi.
“IFamNews” ne ha parlato con Claudio Risé, psicoterapeuta e scrittore, già docente di Psicologia dell’educazione nella facoltà di Scienze dell’Università degli Studi di Milano-Bicocca.
Professor Risé, qual è la causa principale del disagio e dell’alienazione che vivono i giovani, e che porta alcuni di loro a commettere un atto così estremo?
Ci sono una molteplicità di cause, profonde e fastidiose da guardare in faccia; infatti, spesso non le si vede e non se ne parla. Ma la ragione principale che concorre alla scelta di un giovane di togliersi la vita è la solitudine.
Eppure uno dei due ragazzi monzesi che si è suicidato era impegnato nel sociale, nella difesa dell’ambiente e nella politica locale…
Si può essere soli in mezzo a tanta gente. Il vuoto è anche nella comunità dei pari, è nei valori collettivi che ci tengono alla larga dalla questione centrale: il senso della vita. Senza un riferimento trascendente, anche le persone più impegnate e con una forte personalità soffrono la solitudine. Come mostrano i giovani d’oggi, apparentemente amati e curati. Sono i figli della prima generazione dove l’amore per la prole non è provato e coltivato a livello istintivo e diventa secondario rispetto ad altre preoccupazioni come il lavoro, l’apprezzamento sociale, il successo, la ricchezza e la sicurezza.
Quindi parte della colpa è delle famiglie?
No, la responsabilità non è dei singoli genitori, ma del modello antropologico in cui ci troviamo, che non è altruista e davvero sociale, ma che lascia l’altro sostanzialmente solo, sostituendo i rapporti con le connessioni digitali che danno l’impressione di essere collegato con tutti. Ma manca quell’intimità che si costruisce unicamente nel rapporto diretto, “da persona a persona”. Non basta avere interessi e avere la vita in ordine per rompere la solitudine. La solitudine è affettiva, antropologica.
Oggi un italiano su tre vive da solo. Che ruolo ha la crisi della famiglia sui comportamenti dei giovani?
La crisi della famiglia ha avuto un effetto enorme, perché il primo accoglimento avviene nel nucleo familiare, dalla madre e poi dal padre che sono le prime figure di cura e di conforto. Padre e madre sono stati fortemente ridimensionati. A contare sono gli idoli di oggi: l’arricchimento, il consumo e l’immagine. Il centro della vita familiare è invece il dedicarsi all’altro: la famiglia è fondata sul sacrificio della vanità e dell’egoismo personale, sulla relazione con l’altro. Dopo il rapporto uomo-donna c’è il dono di sé ai figli. Questo oggi conta poco, anche negli orientamenti politico-sociali e lascia quindi i figli soli e abbandonati.
Quando è emerso questo modello antropologico che ha messo in discussione il ruolo della famiglia?
Già la generazione precedente ai giovani di oggi aveva accettato questo modello. I genitori oggi faticano a sacrificarsi per i figli e quindi sono più permissivi, ma non per liberalismo, semplicemente perché è più comodo. Eppure la responsabilità verso i figli esiste già a livello biologico: con i figli devi starci, essere al loro fianco in ogni momento, anche quando si ribellano. I genitori invece hanno abdicato al ruolo di autorità, anche perché è una seccatura. Ma l’autorità deve poggiare su un prestigio che ci si guadagna minuto per minuto, con la faticosa cura per l’altro altrimenti il figlio è infelice. L’autorità è scomoda innanzitutto per chi la esercita: è più semplice fare il consumatore felice e liberale.
E la società ha qualche responsabilità?
È la società che ha costruito questo modello umano, non è caduto dal cielo. L’abbiamo avallato con le nostre scelte politiche e di vita, in ogni strato sociale. Infatti le critiche non sono molto apprezzate: si dà spazio unicamente a coloro che confermano questa impostazione. Emblematica è la questione delle sardine: un gruppo giovanile che si dedica ad appoggiare il potere e le scelte sociali fatte finora e quindi ottiene grande spazio.
Alle giovani generazioni mancano riferimenti culturali?
Più che altro sono stati sostituiti da altri, più omogenei al modello. Come quelli che vengono chiamati influencer: figure che confermano il modello antropologico del consumo, sostanzialmente vuoto perché per principio privo di riferimenti trascendenti. Vuoto perché nella storia umana la ricerca del senso della vita passa dal guardare in alto, verso qualcosa che ci trascende e che ci aiuta a spiegare ciò che per noi è un mistero.
Quindi ciò che manca ai giovani oggi è qualcuno che li sproni a guardare oltre se stessi?
Storicamente le religioni hanno aiutato l’uomo a cercare il senso delle cose, il perché di fronte a certi avvenimenti ci sentiamo soli e spaesati. A riconoscere il proprio ssé, come spiegano psicologia e antropologia. Non è complicato: basta mettersi in discussione realisticamente, come succedeva ai contadini, in maniera semplice ma profonda. Il modello consumistico invece ha tolto di mezzo il rapporto dell’uomo con la dimensione trascendente lasciandolo unicamente nella dimensione orizzontale. Gli influencer sono i preti di questo modello.
Cosa si può fare di fronte a questa situazione?
Può sembrare banale: anzitutto bisogna imparare a guardare in faccia il disagio che vivono i nostri giovani. Questi fenomeni colpiscono quando avvengono, ma si verificano da molto tempo ed è necessaria un’approfondita riflessione comunitaria. Questo dovrebbe essere un grande impegno anche per le autorità spirituali e religiose che hanno una responsabilità centrale. Un impegno di tutti, non riservato a tecnici e intellettuali: i nostri figli sono carne viva e dunque da lì bisogna partire, dalla vita quotidiana e dalle realtà in cui siamo immersi.
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