Last updated on Agosto 24th, 2020 at 01:53 pm
L’India è uno di quei Paesi in via di sviluppo in cui la questione demografica è un problema sentito e delicato che coinvolge aspetti diversi, da quelli economici a quelli socio-culturali.
Infatti, secondo un’analisi pubblicata in gennaio su Visual Capitalist, e ripresa in Italia anche da Il Sole-24Ore, il trend di crescita demografica dell’India segue un andamento ben più tradizionale, lontano dalle battute di arresto che i Paesi occidentali stanno vivendo: entro il 2050 nel subcontinente indiano si avranno 270 milioni di cittadini in più.
Ora, anche l’India soffre di forzature culturali che generano disparità di trattamento e oggettiva preferenza sociale per i neonati maschi rispetto alle femmine.
È del 2015 la campagna, sostenuta e fortemente voluta dal primo ministro, Narendra Modi, Save the girl, educate girl child. Nel Paese l’aborto selettivo e l’infanticidio femminile sono ancora pratiche molto diffuse, tanto che anche lì, contrariamente al trend rilevato da gran parte degli studi degli esperti e dall’Organizzazione mondiale della sanità, il numero dei nati di sesso femminile è molto inferiore a quello dei nati maschi.
Se infatti, generalmente, nei Paesi occidentali il rapporto fra maschi e femmine è di 105 a 100, in India si hanno 945 donne per 1000 uomini e in alcune aree il rapporto scende addirittura a 700 donne per 1000 uomini. A pagare il prezzo più alto non sono però le zone rurali, come si potrebbe pensare, ma quelle urbane.
Questa disparità (che in alcuni casi è letteralmente allarmante) rivela una cultura fortemente discriminatoria. Le donne sono tendenzialmente considerate un costo enorme per le famiglie indiane. La cultura patriarcale ivi vigente prevede che le donne rimangano a casa fino al momento del matrimonio, per poi andare, dopo aver corrisposto una dote cospicua al futuro marito, a servizio completo della nuova famiglia. I matrimoni, quasi tutti combinati dalle famiglie di partenza, sono quindi un costo alto che non comporta nulla di vantaggioso alla famiglia della donna, ma solo grandi debiti difficili da colmare.
Svegliare la società
Quando presentò Save the girl, educate girl child il primo ministro Modi pose l’accento sulla necessità di cambiare la mentalità sociale e culturale, contrastando l’infanticidio femminile e l’aborto selettivo, che, seppur vietati sulla carta, sono invece ampiamente usati, dicendo: «È nostra responsabilità svegliare la società e capire quali siano le nostre responsabilità. È a causa delle pressioni sociali e familiari che le bambine vengono uccise ancora nell’utero materno».
Uno studio pubblicato sul periodico medico The Lancet nel 2011 ha confermato l’andamento costante e preciso dell’eliminazione delle bambine non ancora nate. L’ultimo censimento avvenuto in India nel 2011, e alcuni studi sparsi successivi, mostrano del resto un dato impressionante: secondo quanto riportato dal National Family Health Survey, che ha monitorato il problema lungo un arco temporale molto ampio, cioè dal 1995, la sex ratio, ovvero il numero di femmine a confronto con il numero di maschi presenti in un’area geografica specifica in un determinato arco temporale, scende drasticamente soprattutto quando si tratta di una seconda gravidanza e di una figlia femmina già nata. Quando cioè la famiglia ha già avuto come primo figlio una femmina, il secondo, qualora fosse di nuovo femmina, viene abortito, portando il rapporto fra maschi e femmine a 906 femmine per 1000 maschi nel 1990, per arrivare a 836 femmine per 1000 maschi nel 2005, ovvero un decremento annuo dello 0,52%.
Questo stesso andamento non si ripresenta però in questi termini laddove il primo figlio nato è invece maschio, poiché il maschio è considerato un vero e proprio tesoro per la cultura patriarcale indiana.
Riassegnazione maschilista del sesso
La cultura della discriminazione è peraltro rintracciabile pure in altre pratiche mediche diffuse in India. Uno studio recente pubblicato in giugno su Bioethics suggerisce che, anche in casi estremi e rari quali quello dell’ermafroditismo, e di tutte le sindromi simili correlate al sesso, ci sia una tendenza da parte dei clinici e delle famiglie a privilegiare una riassegnazione del sesso del bambino o dell’adolescente verso quello maschile.
Le persone che soffrono di queste sindromi legate al sesso spesso manifestano sintomi molto vari, come genitali esterni diversi da quelli interni, livelli cromosomici e ormonali diversi o una combinazione abbastanza varia di questi fattori. Spesso l’intervento clinico prevede diversi step e azioni come le terapie ormonali o la chirurgia correttiva per far sì che gli organi interni corrispondano a quelli esterni. Appare evidente che nella scelta di riassegnazione del sesso nel caso di queste patologie, numerose siano le valutazioni da fare e una di queste passa in primis per una valutazione psicologica del soggetto. Ma non così in India, in cui molti medici preferiscono invece attuare altri tipi di valutazione.
Uno dei medici intervistati per l’indagine pubblicata da Bioethics ha ammesso che due sono i passi seguiti in questi casi: il primo prevede la conferma della diagnosi, mentre il secondo l’assegnazione del sesso migliore al bambino, adattandolo alle necessità e preferenze della famiglia e della società. Secondo questo medico (ma i dati suggeriscono che non sia un’opinione solo personale), le circostanze familiari e le pressioni sociali derivanti giocano un ruolo importante nella scelta. Il medico, come riporta Arpita Das nell’articolo, elenca cinque fattori determinanti per l’assegnazione del sesso in questi casi clinici: l’età in cui il bambino arriva dal clinico per la prima diagnosi, la lunghezza del pene, il tipo di organi riproduttivi interni e genitali esterni, il sesso dell’altro figlio precedente a quello in valutazione, nonché l’opportunità di avere, per ragioni economiche, un figlio maschio in famiglia. Almeno tre di questi fattori sono chiaramente di natura sociale e, appunto, economica.
Descrivendo qui questo processo freddamente, prima ancora di proferire giudizi etici, aggiungo pure che la scelta di convertire il paziente preferibilmente in maschio ‒ al di là appunto di altre valutazioni fondamentali sul piano morale e di quelle cliniche ‒ risiede nel fatto che, molto spesso, questi soggetti sviluppano infertilità. In India l’infertilità è ancora uno stigma sociale molto forte che ricade quasi interamente sulla donna, la quale difficilmente potrà in quel caso sposarsi. Per le famiglie è infatti molto meno difficile accettare un maschio sterile non sposato che una figlia femmina. E questo anche perché, tradizionalmente, sono gli uomini a occuparsi di questioni familiari quali le attività economiche e il sostentamento dei genitori una volta divenuti anziani. Numerosi sono quindi i fattori sociali ed economici che ancora esercitano un peso rilevante sulle scelte medico-cliniche, le quali, invece, dovrebbero seguire un andamento più oggettivo, basato sulla scienza medica e sulla sua pratica.
Ancora lungo è insomma il percorso prima che certi gap culturali e sociali vengano colmati, e certi orrori siano evitati verso le bambine, le donne e tutte le persone in condizione di fragilità estrema, come possono essere i pazienti affetti da patologie rare del sesso.
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