Last updated on Ottobre 4th, 2021 at 02:46 am
Michael Pollan è un giornalista e saggista statunitense esperto di questioni alimentari. Di recente si è lanciato nel mondo della psichedelia incrociando pericolosamente cibo, droga e cultura. In luglio, su The New York Times, ha affrontato il tema della fine della guerra alla droga, che negli Stati Uniti d’America sembrerebbe prossima, e le implicazioni che ciò avrà nel futuro immediato. Quello che avviene oltre Atlantico è sempre interessante per le ripercussioni che inevitabilmente si avvertono anche su questa sponda e il dibattito sulla cannabis attualmente in corso in Italia ne è un primo segnale. Ora, le argomentazioni precise di Pollan, scritte tra l’altro con una prosa accattivante, sono sicuramente stimolanti, ma presentano aspetti discutibili.
Precisa è la descrizione che il giornalista offre di quanto sta avvenendo negli Stati Uniti, dove sempre più Stati dell’Unione hanno votato la depenalizzazione del possesso di ogni tipo di droga, comprese eroina e cocaina, senza lasciare indietro nemmeno gli allucinogeni. Pollan si fa però più discutibile quando afferma che «alle persone piace mutare stato di coscienza», citando la caffeina ed equiparandola a una droga che verrebbe concessa come benefit addirittura dai datori di lavoro nella forma della «pausa caffè». Che la caffeina possa essere ritenuta tecnicamente una sostanza che può dare dipendenza e assuefazione è fuori di dubbio, ma certamente è possibile trovare esempi più calzanti. Ma tant’è.
Anzi, è nulla al confronto del restyling del titolo di The New York Times confezionato dal periodico italiano Internazionale del 24 settembre per la traduzione dell’articolo di Pollan. Mentre l’originale suona How Should We Do Drugs Now?, ovvero «Come ci si drogherà adesso?», Internazionale ipersemplifica in un anonimo e dolciastro Fare la pace con le droghe, accompagnato da un catenaccio alla Lina Wertmüller, la nota regista italiana: «Dopo decenni di inutile e costosa guerra alle sostanze stupefacenti, gli Stati Uniti sembrano decisi a cambiare strategia. Ma legalizzare non basta. Serve una rivoluzione culturale, scrive Michael Pollan».
Insomma, il titolo originale dà per scontato che tutti ci droghiamo e dunque che tutti dobbiamo trovare un modo per farci meno male possibile. Pollan descrive infatti una società che convive con la droga e che la droga la usa, ovviamente passando attraverso «il processo di approvazione dei farmaci della Food an Drug Administration».
È in pratica la solita idea di individuare una “via medica” a un consumo “controllato” e poi si vedrà. Manuali d’uso, uso rituale, magari in qualche apposita Chiesa come quella dell’acido lisergico alla quale nessuno potrebbe negare «il diritto di usare il sacramento prescelto». E per chi invece predilige un approccio più laico, ecco pronti centri benessere, spa o cliniche come la Field Trip Health, di Toronto, in Canada, nonché a New York e a Los Anglese, negli Stati Uniti d’America, dove con la ketamina, già legale, si cura la depressione, «in previsione dell’approvazione dell’mdma e della psilocibina da parte della Fda».
Sperando che un futuro nostro e dei nostri figli fatto quasi inevitabilmente di droga esista solo nelle menti intossicate di certi intellettuali, che vedono nelle droghe psichedeliche un “nuovo rinascimento”, noi continuiamo a credere che l’uomo debba conservare la propria libertà senza assumere sostanze che ne facciano cambiare lo stato di coscienza in nome della sperimentazione di stati alterati.
Ma se hanno ragione certi intellettuali, come sarà possibile dire ai giovani che la droga fa male? «Che mondo sarà se ha bisogno di chiamare Superman? Che mondo sarà? Fa l’effetto del motore che non va», cantava Lucio Dalla (1943-2012). Sì, che mondo sarà quello che avrà bisogno dei funghetti per domare dipendenze e depressioni, evitando di andare al fondo delle cause che hanno per effetto quei guai allo scopo di eliminarle?
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