Droghe leggere e luoghi comuni

Alfredo Mantovano: «Il consumo di stupefacenti tra i giovani italiani è una pandemia. Si parla per slogan dimenticando i dati»

Mani si alzano verso il cielo e si liberano dalle manette

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Last updated on Luglio 30th, 2020 at 04:02 am

«Liberalizzare le droghe significa sferrare un duro colpo alla criminalità organizzata». «Nessuno è mai morto perché si è fumato una canna». «La battaglia per la cannabis libera è una battaglia di libertà contro l’oscurantismo». Il terreno del dibattito pubblico sulla cannabis è lastricato di luoghi comuni e di slogan ciclostilati in proprio. Ma cosa si nasconde sotto queste frasi apparentemente rassicuranti? “iFamNews” ne parla con Alfredo Mantovano, magistrato di lunga esperienza, già sottosegretario agli Interni, vicepresidente del Centro Studi Rosario Livatino.

Partiamo dai dati: quando si dice cannabis in Italia, di cosa si sta parlando?

Il consumo di sostanze stupefacenti tra i giovani ha assunto ormai dimensioni pandemiche. Un terzo degli studenti italiani, il 33,6%, corrispondente a circa 870mila ragazzi, ha utilizzato almeno una sostanza drogante durante la propria vita. Un quarto, il 25,6%, corrispondente a 660mila studenti, ne ha fatto uso nel 2018. Centinaia di migliaia di persone in età evolutiva subiscono dunque ogni anno una pesante aggressione al sistema nervoso, all’apparato respiratorio, alla capacità riproduttiva, per menzionare solo alcune delle voci maggiormente interessate dai danni della sostanza.

I derivati di cannabis, marijuana e hashish, oltre alle piante stesse, sono lo stupefacente maggiormente diffuso: interessano il 58% delle operazioni antidroga, il 96% del totale dei quantitativi sequestrati, l’80% delle segnalazioni ai sensi dell’art. 75 DPR n. 309/1990 (la detenzione, che non costituisce illecito penale bensì solo amministrativo), il 48% delle denunce all’autorità giudiziaria. Oltre a questo, il 78% degli studenti assuntori di derivati della cannabis è all’oscuro degli effetti che le sostanze avranno sul loro corpo. Tutti i dati ai quali faccio riferimento vengono dalla Relazione al Parlamento sullo stato delle varie dipendenze in Italia, relazione diffusa nel dicembre 2019 dal Dipartimento per le Politiche antidroga della Presidenza del Consiglio.

I derivati della cannabis sono però considerati “droghe leggere”, dunque anche gli effetti collaterali dovrebbero essere leggeri…

Ricordo che 30 anni fa le perizie tossicologiche effettuate sui derivati della cannabis sequestrati facevano registrare una percentuale di Thc che si aggirava mediamente sull’1%. La cannabis più potente che si trova in natura non supera il 2.5%. Sono anni e anni che nei derivati della cannabis sequestrati si riscontra una media di principio attivo che va dal 12% della marijuana al 17% dell’hashish. L’1% o il 12% non sono la stessa cosa. È come se io dicessi che, al posto di un terzo di litro di birra, assieme alla pizza assumo un terzo di litro di whisky.

Qui di leggero c’è soltanto l’approccio alla materia: la stessa riforma voluta nel 2014 dal governo presieduto dall’onorevole Matteo Renzi ha riportato la definizione antiscientifica di “leggere”, che ha contribuito alla loro diffusione così ampia. Sempre nella relazione del Ministero datata dicembre 2019 si legge infatti che l’84,2% degli studenti che ha assunto cannabis nel 2018 ritiene di poterla reperire facilmente, il 75,3% riferisce che potrebbe procurarsela per strada, il 35,7% a casa di amici e il 34,6% in discoteca.

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Droghe leggere forse non così leggere, dunque. Eppure c’è un must che nel dibattito pubblico sulle droghe ritorna sempre: la liberalizzazione sarebbe un duro colpo per la criminalità organizzata. I cannabis shop quasi come un presidio di legalità…

Più che un must è un’idiozia. Intanto tutti i cannabis shop che vendono al pubblico derivati della cannabis sono illegali e andrebbero chiusi, soprattutto dopo la sentenza delle Sezioni Unite della Cassazione del 30 maggio 2019, che ha chiarito qualsiasi dubbio sulla legge 242 del 2016, legge che già né autorizzava né tanto meno promuoveva la nascita dei cannabis shop.

La vendita dunque, sulla base della legge 2016, è vietata. Comunque, legalizzare danneggia la criminalità? Primo: il problema principale non è lo sfruttamento criminale della cessione di stupefacenti, ma il fatto che un terzo degli studenti italiani li assuma . È questo il vero rovesciamento di prospettiva che sapientemente viene tenuto nell’ombra. Secondo: anche il più strenuo sostenitore della legalizzazione intravede la fissazione dei limiti.

Anche lo scrittore Roberto Saviano, credo non possa concepire che un bambino di 9 anni vada dal tabaccaio e chieda di farsi incartare un chilo di cannabis con Thc al 50%. Limiti di età dell’acquirente, di quantità della sostanza e di qualità della sostanza. Ebbene, la criminalità organizzata non fa altro che posizionarsi un centimetro dopo ciascuno di questi limiti, incrementando l’offerta per esempio verso i giovanissimi con prezzi vantaggiosissimi per fidelizzare nuovi giovani clienti. Guardiamo alla California, per fare solo un esempio, e vediamo che finisce così.

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Però nessuno è mai morto per aver fumato una canna. E perché mai si può acquistare alcool e sigarette, ma non cannabis?

La diffusione dell’alcool e del tabacco incontrano limiti importanti, basta ricordare com’erano cinema e ristoranti 30 anni fa: dopo la legge introdotta dal ministro Girolamo Sirchia nel 2003 tutto è cambiato. Fumare una canna è molto trendy: infatti ogni fiction o film lo mostra, ma se si prova a tirar fuori un pacchetto di sigarette si è guardati come degli untori. E infatti il tabacco è bandito da ogni luogo pubblico e dalla maggior parte dei luoghi privati. Si possono bere due birre invece che una, poi però non ci si può mettere alla guida, e chi lo fa rischia pene severe. La riprovazione, anche legislativa, per tabacco e alcool c’è. Senza dimenticare che l’utenza dei servizi per le tossicodipendenze in trattamento per uso primario di cannabis rappresenta l’11% del totale, e i ricoveri ospedalieri da imputare a questa sostanza sono il 5% di quelli direttamente droga-correlati. E chi parla, per esempio, degli incidenti causati da persone che guidavano sotto l’effetto di sostanze stupefacenti?

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La battaglia per la liberalizzazione della cannabis è una battaglia per consentire a tutti di scegliere per conto proprio. Per chi propone la liberalizzazione, «libertà» significa infatti fare ciò che si vuole.

La libertà è essere nelle condizioni di rispettare se stessi e di raggiungere gli obiettivi che ci si è posti. La libertà non è un valore assoluto, ma un valore funzionale al perseguimento di valori più importanti. Una libertà assoluta, una libertà così ampia, cozza contro la libertà degli altri: basti pensare alla libertà di fare tutto ciò che si vuole applicata alla sfera sessuale. Il punto è che una persona non ha la libertà di danneggiare gli altri, ma nemmeno di danneggiare se stessa. Alla fine degli anni 1980 fu introdotta in Italia la legge che imponeva il casco per i motociclisti e oggi è un dato scontato quasi per tutti. All’inizio degli anni 1990 ci furono forti contestazioni, addirittura un pretore di Salerno formulò una eccezione di legittimità costituzionale. La Corte costituzionale rispose con una sentenza importante nella quale si ricorda che, nei confronti degli altri, non si hanno solo diritti da rivendicare, ma anche doveri da svolgere. Se si cade dalla moto e ci si procura danni che l’uso del casco avrebbe evitato, si costringe il corpo sociale del quale si fa parte a intervenire, con spese e con impegno. Da questa scelta personale deriverà l’allontanamento dall’adempimento dei doveri del lavoro e della solidarietà sociale in generale. Non si vive soli, non esistiamo solo noi.

Oggi consumare cannabis è ormai di moda. Ci sono anche personaggi famosi, molto seguiti dai giovani, che ne fanno serenamente pubblicità. Cosa può fare il singolo cittadino per dire «no»?

Occorre prima ricuperare la consapevolezza del fenomeno. Mi chiedo perché, a fronte di questa relazione, non ci sia neanche uno straccio di Commissione parlamentare che discuta di questi dati. Perché le forze politiche non richiedono una discussione del genere? La consapevolezza è insomma ancora troppo bassa. Bisogna dunque andare nelle scuole e parlare di questo tema. Io vengo spesso invitato a parlarne. Recentemente sono però stato richiamato da un preside che aveva registrato obiezioni da parte dei genitori sulla mia partecipazione. I genitori chiedevano il contraddittorio: che facciamo, allora, invitiamo pure uno spacciatore? Cosa serve di più, cosa manca ancora di fronte a questi dati per rendersi conto della gravità della situazione?

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