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Sul piano sociologico sembrava che la rivoluzione sessuale inaugurata dal Sessantotto si fosse reificata nel femminismo, che, di per sé, avrebbe dovuto rivendicare il riconoscimento della parità giuridica della donna, sia sul piano delle opportunità culturali e professionali, sia su quello della retribuzione lavorativa. A questo si è aggiunto poi il tema della violenza e degli abusi che la donna (moglie e madre) subiva all’interno delle mura della propria casa. In verità la IV Conferenza mondiale delle Nazioni Unite sulla Donna, svoltasi a Pechino, in Cina, nel settembre 1995 – erede e applicazione dei dettami e dei “valori” del Sessantotto – ha fatto in maniera esemplare emergere il fine vero della rivoluzione sessuale.
L’essere umano come target
Quella sovversione culturale mirava infatti a essere, nella propria matrice originaria, l’“anno zero” di una utopia sociale intenzionata a ridefinire totalmente l’essere umano, a partire proprio dalla sua essenza e prescindendo dal tema della pari dignità della donna. Oggi, paradossalmente, proprio la donna in quanto donna è travolta e nullificata, e quella rivoluzione che ne rivendicava la parità con il maschio si consuma nell’affidare allo Stato il diritto di stabilire l’umanità del cittadino, uomo o donna che sia. Anzi, rivendica come diritto l’assenza di qualsiasi identità sessuale, sia per l’uomo sia per la donna.
Diviene allora evidente perché l’attacco culturale sia diretto alla famiglia naturale come forma stessa della relazione tra l’uomo e la donna. Questo attacco – oggi senza quartiere – si muove su due binari paralleli e complementari, che hanno la forma di due presupposti non dimostrati equivalenti ad altrettante presunzioni infondate. La presunzione sociale che la famiglia naturale sia una sovrastruttura culturale di potere malvagio, che deve quindi essere superata. E la presunzione antropologica che l’essere umano (maschio e femmina) sia una “indeterminazione originaria” che auto-plasma fluidamente e illimitatamente se stesso, in base a una percezione momentanea e istintuale di sé. Il pericolo più grave è che nel dibattito politico questa doppia presunzione venga presentata come un paradigma neutrale di tolleranza e rispetto, laddove si tratta invece, a tutti gli effetti, di un modello antropologico assolutizzante, che vuole imporsi anche a livello pedagogico e quindi culturale. Ma c’è persino di più.
Cos’è l’utopia
Entrambe queste presunzioni-presupposti non sono, tuttavia, una novità originale degli ultimi decenni, ma sono gli effetti ultimi di una elaborazione concettuale plurisecolare che affonda le radici nell’Umanesimo italiano e che poi, in tempi assai più recenti, si sviluppa particolarmente prima con il filosofo ginevrino Jean-Jacques Rousseau (1712-1778), poi con il padre austriaco della psicoanalisi Sigmund Freud (1856-1939). La rivoluzione sessuale del Sessantotto è stata insomma il palcoscenico pubblico che ha permesso a queste matrici, in connubio tra loro, si mostrarsi e di imporsi, fino a venire assunte come fondamento di una utopia culturale vera e propria.
Un pensiero lo merita qui il concetto stesso di «utopia», di cui si possono delineare tre grandi concettualizzazioni, tutte moderne. La prima è la forma astratta tipica, per esempio dell’inglese Thomas More (san Tommaso Moro, 1478-1535). In questo caso l’impiego dell’aggettivo «astratto» indica che il mondo utopico viene solo immaginato, non contestualizzato realmente: un luogo, cioè, dove la vita scorre in forma armoniosa, secondo un sistema comunistico e sotto il controllo statale, esercitato su ogni aspetto della società, come l’educazione, la pianificazione delle nascite e il lavoro.
La seconda forma di utopia è quella propriamente rivoluzionaria, votata alla realizzazione storica e alla proiezione verso il futuro: l’utopia massonica, giacobina, bolscevica, nazionalsocialistica, e così via. Si procede così –applicando il metodo democratico di una democrazia intesa erroneamente come relativismo – a una illimitata auto-legittimazione del diritto, della morale e persino dell’identità sessuale. Il potere positivo decide addirittura dell’umanità stessa, stabilendo chi sia uomo e chi no, come nel caso più che evidente dell’aborto, dell’aborto eugenetico, dell’aborto selettivo.
Ora, tra queste due forme di utopia se ne situa una terza: l’utopia del remoto, emblematizzata alla perfezione nel cosiddetto «mito del buon selvaggio» caro a Rousseau. È qui, infatti, che avviene il ricupero – in modo originale rispetto all’idea illuministica standard di «progresso» – dell’antica idea della storia come decadenza, elaborata dal poeta greco Esiodo (secoli VIII-VII a.C.). In Rousseau la decadenza non ha tratti mitologici, bensì sociali: sono la famiglia e la proprietà privata gli elementi della corruzione e dell’oppressione. E per il pensatore ginevrino non si tratta neppure di cancellare i rapporti famigliari: si tratta di considerare la famiglia in sé come elemento anti-umano, poiché rea di determinare e quindi responsabile di disuguaglianza.
La costruzione del non-luogo
Del resto l’idea rousseauiana di uguaglianza (che fu uno dei capisaldi ideologici della Rivoluzione Francese, 1789-1799) non prospetta affatto la parità dei diritti: ricupera l’idea dell’Umanesimo italiano secondo cui la natura dell’uomo sarebbe indifferenziata e indeterminata, interpretandola come “innocenza selvaggia” originaria e “indistinzione morale”. Queste ultime sarebbero poi venute meno a causa della storia, della scienza, della famiglia e della società tutta, così che il “nuovo patto politico”, il “nuovo ordine mondiale”, ovvero il «contratto sociale» rousseauiano diventano il processo morale e redentivo: la «volontà generale» si fa collettivismo democratico assoluto e totalizzante. Apparentemente si mostra come tollerante e neutrale; in realtà impone – anche coercitivamente – una visione antropologica e politica precisa.
Non a caso oggi impera il connubio “culturale” fra indeterminazione sessuale, religione dell’ecologismo e normalizzazione di ogni forma di convivenza, proteso verso l’utopia: il non-luogo, dove ognuno è parte del nulla, dell’indistinzione, dell’indeterminazione.