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Cosa c’è di scioccante nel chiedere libertà?

Il parlamento sta discutendo la legge sull'«omotransfobia». Qualcuno preferisce i regimi repressivi e manettari?

Marco Respinti di Marco Respinti
06/03/2020
in Editoriali
361
Reading Time: 3 mins read
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Ci risiamo. A Roma compaiono manifesti (di Pro Vita & Famiglia) che esprimono dissenso sulla legge a proposito della cosiddetta «omotransfobia» ora in discussione alla Camera e c’è chi subito grida allo scandalo e chi subito invoca la censura. Anzi, la parola passepartout che viene usata ora, ancora e sempre, è choc.

Ora, cosa c’è di scioccante nel fatto che un manifesto esprima civilmente, pubblicamente ed educatamente dissenso in un Paese democratico che sta discutendo una proposta di legge alla luce del Sole? Cosa c’è di scioccante nell’hashtag #restiamo liberi? (il punto interrogativo è mio, per dovere grammaticale). Cosa c’è di scioccante nello slogan «La legge sull’omotransfobia punisce le tue idee»? È un parere: ma da quando un parere è reato? Cosa c’è di scioccante nella frase «Marco e Silvia hanno insegnato ai loro figli che si nasce maschio o femmina»? Soltanto il fatto che l’aggettivo possessivo adoperato «loro» è sbagliato poiché ci sarebbe voluto «proprio», ma noi, che amiamo la libertà e ci concentriamo sulle cose di valore, lasciamo perdere. Insomma, perché se l’opinione è diversa da quella delle lobby dominanti (magari numericamente ridotte, ma molto rumorose, e molto potenti) bisogna bollarla come scioccante? Forse che chi così fa preferisca una società irregimentata da un pensiero unico e oppressivo, che viaggia a braccetto coi gendarmi, pronto a reprimere a vista ogni e qualsiasi differenza? Forse che chi definisce scioccante un manifesto così preferisca regimi liberticidi, dispotici e persino totalitari come quello fascista, quello nazionalsocialista e quello comunista?

Potrebbero, quei manifesti, non servire: e sia. Qualcuno dice pure che sarebbero controproducenti: non sono d’accordo, ma concedo. Credo sia impreciso scrivere, come fa il manifesto, «Condannati per omofobia», primo perché la legge è ancora solo un progetto, secondo perché qui sta il punto: cosa succederà concretamente qualora il progetto diventasse legge? Ma con questo? Lasciamo che chi ha pagato e affisso quei manifesti spenda il proprio tempo e il proprio denaro: perché negarne la possibilità? Si chiama libertà, e per essa occorre battersi.

Il timore espresso da chi ha affisso quei manifesti è oggi che la legge sulla cosiddetta “omotransfobia” sia l’ennesima astuzia per zittire il dissenso, persino per metterlo fuori legge.
L’omotrasfobia, infatti (ho scritto cose analoghe nel caso recente della Svizzera), non esiste. Lasciamo che il parlamento faccia il proprio corso, tornando al momento opportuno ad affrontare ancora l’argomento, ma se ci sono i pazzi, se ci sono addirittura i criminali, basti per loro il Codice penale. Chi offenda un’altra persona nella dignità, chi addirittura le arrechi danno per motivazioni legate a credo religioso, convinzione politiche, tifo calcistico, appartenenza etnica e sesso commette un reato e viene punito di conseguenza dalla legge ordinaria. Ma chi contesta l’ideologia del gender in un Paese civile e avanzato come l’Italia deve continuare a poterlo dire liberamente. Esprimere una opinione non è un reato finché non valica il confine con il crimine e a quel punto il diritto vigente è già certo.

Ora, io non credo affatto che il problema dell’omosessualità e la piaga dell’omosessualismo si risolvano con un manifesto. Credo però che vi siano momenti storici, critici e magari liminali, in cui occorre mandare un messaggio chiaro e preciso, sintetico e magari icastico, per svegliare la gente che, in tempi di coronavirus specialmente, non pensa ad altro che al proprio ombelico. Momenti in cui issare una bandiera è importante. Un manifesto può dunque essere utile allo scopo. Quello che ho visto affisso, e per il quale giustamente nessuno ha domandato il mio parere, è semplice, diretto quanto basta, chiaro, incisivo, educato. Se non è affissione abusiva a monte, può e deve stare dove sta. E poi, una volta affisso, una volta letto, una volta compreso, si volta pagina e si torni a lavorare seriamente ora dopo ora: per sanare pietosamente la piaga dell’omosessualità e combattere la cultura dell’omosessualismo, per usare carità al prossimo e per usare carità alle cose chiamandole con il nome che hanno, costruendo un nuovo consenso attorno alla verità di queste benedette cose, e tornando a costruire una civiltà autenticamente a misura di uomo.

I cartelli insomma non bastano, ma servono. Per questo forse vengono impunemente definiti scioccanti da chi ha paura del confronto e preferirebbe risolvere tutto con le manette. Quello sì è hate speech.

Aggiornamento. Il voto della Camera dei deputati per l’approvazione del disegno di legge sulla cosiddetta «omotransfobia», calendarizzato al 30 marzo, è stato annullato a caua del coronavirus.

Marco Respinti

Marco Respinti

Marco Respinti è stato il direttore di International Family News fino alla fine del 2022.Italiano, è giornalista professionista, membro dell’International Federation of Journalists (IFJ), saggista, traduttore e conferenziere. Ha collaborato e collabora con diversi quotidiani e periodici, sia in versione cartacea sia online, in Italia e all’estero. Autore di libri, ha tradotto e/o curato opere di, fra gli altri, Edmund Burke, Charles Dickens, T.S. Eliot, Russell Kirk, J.R.R. Tolkien, Régine Pernoud e Gustave Thibon. Senior Fellow al Russell Kirk Center for Cultural Renewal (Mecosta, Michigan), è anche socio fondatore e membro del Consiglio Direttivo del Center for European Renewal (L’Aia, Paesi Bassi). Membro del Comitato editoriale del periodico The European Conservative e del Consiglio Consultivo della European Federation for Freedom of Belief, è direttore responsabile del periodico accademico The Journal of CESNUR e, sul web, di Bitter Winter: A Magazine on Religious Liberty and Human Rights.

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