Come ti debunko l’arma spuntata dello «schwa»

Le lingue non sono convenzioni, seguono una guida biologica. Un progetto. Unico. Intelligente. Il «Meeting di Rimini» spiega come e perché

Image by Cecilia Anselmi Tamburini

Last updated on Agosto 30th, 2021 at 03:22 am

Molte circostanze testimoniano il valore della famiglia numerosa e, al di là della contagiosità dei bambini, anche i figli già cresciuti portano indubbiamente vantaggi nella vita dei genitori. È il caso di una figlia appassionata di lingue straniere, alle prese con un esame di Linguistica generale, che propone di assistere a un convegno del Meeting di Rimini 2021 su La possibilità di dire “io”. Il mistero del linguaggio. I relatori sono Andrea Moro, neurolinguista e scrittore, professore di Linguistica generale nella Scuola Universitaria Superiore IUSS di Pavia, e Mauro Cerioni, professore di Neurologia nell’Università degli Studi di Pavia nonché direttore dell’Unità operativa di Neurologia generale nell’Istituto Neurologico Nazionale IRCCS Mondino. Partendo dal tema della manifestazione riminese di quest’anno, Il coraggio di dire io, l’incontro ha proposto una riflessione sull’unicità del linguaggio umano – condizione preliminare alla possibilità di dire «io» – e su come questo sia «espressione dell’architettura neurobiologica esclusiva della nostra specie».

Nasce spontaneo un riferimento ai recenti tentativi di “modifica”, o, meglio, di “violenza”, della lingua italiana, operata da stravaganti personaggi che utilizzano – malamente – simboli fonetici nella vana illusione di introdurre a forza ideologie “creative”, ottenendo per altro risultati al bivio tra il comico e lo straziante. Per esempio l’elemento fonetico «Ə», ovvero lo schwa, che indica l’assenza di vocale seguente o la presenza di una vocale senza qualità e senza quantità, quindi di grado ridotto. Ora, introdurlo forzatamente nella lingua italiana, come escamotage per «rendere l’italiano una lingua più inclusiva e meno legata al predominio del genere maschile», lungi dall’ottenere l’esito desiderato, rende semplicemente illeggibile il testo. Il che, a conti fatti, non è detto sia poi sempre un male.

La possibilità di dire «io»

Con gratitudine infinita, resa pubblica doverosamente, nei confronti della suddetta figlia, che non solo ha sollecitato l’interesse per l’incontro, ma che ne ha anche preso appunti esaustivi e coerenti indispensabili per un resoconto dettagliato, seguo lo sviluppo argomentativo del professor Moro. Non è possibile definire l’«io» come concetto isolato: sarebbe come pretendere di definire il bianco senza avere altri colori a disposizione. Il “colore” che contrasta con l’«io» è il «tu», ovvero il nome che un «io» dà a un altro «io» quando lo riconosce in un ‘alterità rispetto a sé. Così l’«io» emerge in relazione al «tu» (e viceversa), e ciò si manifesta palesemente anche nei processi di acquisizione cognitiva ed espressiva dei bambini. Posti davanti a uno specchio, i bambini non riconoscono immediatamente sé, ma vedono un “altro bambino”. Quando invece si specchiano tra le braccia della mamma, riconoscendo nell’immagine riflessa la propria madre, riescono a riconoscere anche l’immagine di sé.

La trama nascosta del linguaggio

Le parole, come l’«io», non esistono dunque in isolamento, ma solo composte in frasi: cioè secondo le strutture della sintassi, cuore esclusivo e trama nascosta del linguaggio umano che permette di spiegare ciò che è visibile e complicato con ciò che è invisibile e semplice. Il dato visibile e incontrovertibile delle lingue umane è che le parole si pronunciano in sequenza, ma il dato sorprendente è che nessuna regola della sintassi si basa sulla sequenza delle parole, bensì sulla struttura gerarchica delle stesse. Come è dunque possibile per l’uomo apprendere la sintassi?

La trama biologica che precede l’esperienza

Tale apprendimento può avvenire solo per tre vie: con l’istruzione esplicita, tramite l’imitazione e sulla base di un programma biologico. Evidentemente è necessario escludere l’ipotesi di una istruzione esplicita, dal momento che gli stessi parlanti adulti ignorano le regole che pure usano. Anche l’imitazione si esclude, perché se si imparasse da soli per imitazione, si commetterebbero errori non attestati. L’unica ipotesi che rimane è quella di una guida biologica che preceda l’esperienza.

Ovviamente l’esperienza resta essenziale per attivare l’apprendimento: senza l’interazione, non sarebbe possibile apprendere alcuna lingua. Ma l’esperienza non ha libertà incondizionata. Si muove entro i limiti di una griglia preformata: dentro quelli che Moro definisce – con il titolo di un suo libro – I confini di Babele. Dal momento che la lingua parlata dai genitori non condiziona l’apprendimento di una lingua differente nei bambini, la “griglia preformata” deve essere valida per ogni lingua: la linguistica si prefigge dunque di cogliere formalmente la “mente staminale” del bambino, aperta a ogni lingua possibile. Ne discende la “teoria della potatura”, cioè il contrario della tabula rasa: l’apprendimento consiste fondamentalmente nel dimenticare le grammatiche non compatibili con l’esperienza. Ne è dimostrazione il fatto che i circuiti cerebrali si riducano durante l’apprendimento spontaneo di una o più lingue.

Il professor Moro riporta questa affermazione del linguista statunitense Noam Chomsky, docente emerito di Linguistica nel Massachusetts Institute of Technology di Boston: «il linguaggio è un insieme di valori specifici di parametri in un sistema invariante di principi». Ciò significa che l’insieme delle lingue possibili non è infinito. Idealmente, tutte le lingue potrebbero essere descritte in una “tavola periodica” dove le differenze sono espresse da piccole variazioni (binarie) di uno stesso schema generale.

Le lingue impossibili: la prova decisiva

Date queste premesse, devono esistere lingue “impossibili”, cioè strutture coerenti e magari semplici che il linguaggio, tuttavia, non riconosce come proprie non per motivi culturali, ma neurologici.

Esperimenti neuroscientifici hanno dimostrato che il flusso ematico nell’area di Broca (parte dell’emisfero cerebrale la cui funzione è coinvolta nell’elaborazione del linguaggio) aumenta all’aumentare della padronanza delle regole possibili e diminuisce all’aumentare di quelle impossibili.

Un po’ quel che è accaduto alla giornalista Flavia Fratello nel tentativo di leggere il pezzo di Michela Murgia scritto con lo schwa. L’attivazione selettiva di circuiti diversi mostra che l’esistenza di lingue impossibili non può essere il frutto di “una convenzione culturale di natura arbitraria”, ma l’esito di una selezione naturale su base neurobiologica. Ecco perché si può affermare che «le lingue non sono dei software che girano su un hardware inerte (il cervello); le lingue sono l’espressione stessa del cervello, come se la carne si facesse logos».

Le conseguenze antropologiche: cosa rende possibile dire «io»

A differenza degli esseri umani, sostiene Moro, gli animali possiedono un dizionario fatto di frasi, non di parole. Ciò significa che sono in grado di computare simboli, ma non concatenazioni significative di simboli. Anche di fronte alla presenza di un livello minimo di coscienza di sé, questo non può essere oggetto della conoscenza stessa, che è espressione di un’autocoscienza. Se il linguaggio umano è unico tra gli animali ed è espressione della struttura neurobiologica, allora questa struttura deve essere unica.

Allo stesso modo, all’estremo opposto, quando si parla di Intelligenza Artificiale occorre distinguere la simulazione dalla comprensione dei meccanismi neurobiologici: un automa che parli “come se” fosse un essere umano, è una mera simulazione e non può essere in alcun modo considerato una “riproduzione” dei meccanismi neurobiologici umani.

Per la possibilità di dire «io» – autocoscienza – occorre allora inevitabilmente riconoscere un «tu» e occorre che «io» sia visibile alla capacità specifica degli esseri umani di costruire frasi combinando parole in strutture, secondo un progetto biologicamente determinato.

Poi, aggiunge il professor Moro, per il coraggio di dire io serve di più. Serve qualcosa di misterioso che nessuna macchina riesce a rivelare o riprodurre. D’altronde il coraggio richiama etimologicamente la parola «cuore».


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