Viviamo in un mondo maestro dei “secondo me”, in cui tutti sono commissari tecnici della nazionale di calcio. Ai tempi del coronavirus, siamo tutti virologi e anestesisti, medici e infermieri, rianimatori e infettivologi, e subito dopo prefetti e questori, primi ministri e sottosegretari, persino vescovi.
Non è vero, d’altro canto, che tutto quanto ci accade attorno non vada giudicato. Deve essere giudicato, valutato, soppesato. Ma lo si dovrebbe fare sempre con cognizione di causa. La constatazione più amara è che davvero, ancora una volta, tutto sia infotainment. Lo si fa con la voce un poco più accorata, con una costernazione di circostanza, ma lo si fa comunque. E così incendiari e pompieri si inseguono senza soluzione di continuità, trovandosi al bar a versare benzina o schiuma ignifuga sul fuoco, che tanto il risultato estraniante è il medesimo. Francamente è lo spettacolo peggiore che si può dare in frangenti così.
Ma la vita prosegue. Azzoppata, minacciata, frenata, ma continua. Ci sono sempre il bene e il male, e continuano a non essere la medesima cosa. Ci sono ancora i cavalieri dell’uno e gli spettri dell’altro. I pericoli che la famiglia naturale e il diritto alla vita corrono ogni giorno, ogni ora, ogni momento sono sempre quelli. Solo li si guarda meno, e questo è parte grande del problema.
L’aggressione alla persona, quella che è stata chiamata «quarta rivoluzione» continua. La cosiddetta «quarta», dopo altre tre, storiche, che ci hanno devastato, è la “rivoluzione senza nome”. Come un fantasma, un vampiro, un mostro che ci perseguita, che infesta gli ambienti. Non ha nome perché è pervasiva, perché sfugge alla presa, perché permea e penetra tutto, possiede dall’interno, espropria. È la rivoluzione che non ha più solo di mira aspetti pubblici dell’umano (la politica, l’economia, la socialità), ma che anzitutto e soprattutto colpisce l’uomo nella propria natura, nella propria intimità, nel proprio stesso essere, morale, psicologico, spirituale. Ecco, questa rivoluzione-virus prosegue e non chiedere il permesso al coronavirus.
Noi, che non siamo commissari tecnici della nazionale, che non siamo virologi e anestesisti, medici e infermieri, rianimatori e infettivologi, né prefetti o questori, primi ministri o sottosegretari, tantomeno vescovi, continuiamo a fare l’unica cosa che sappiamo fare, magari male, questo lo giudicheranno i lettori. Noi continuiamo a informare, e se possibile a formare, sui temi che ci contraddistinguono, nella convinzione che proprio mentre il mondo è distratto, pur anche per le migliori ragioni, sia necessario non abbassare la guardia. Quando il mondo uscirà dall’emergenza coronavirus, ora che l’Italia è tutta “zona rossa”, ci troverà ancora al nostro posto, magari a fare la guardia al bidone di benzina, seri, sobri, pronti. Saremo lì perché eravamo lì anche prima, risulterà che non ci saremo mai mossi. E quando il mondo vorrà tornare a prestare attenzione alla battaglia campale del nostro tempo, ultimativa, quella fra la «quarta rivoluzione» senza nome e la bellezza della natura umana, ricominceremo assieme.
C’è una frase, di un libro grande, che abbiamo citato molte volte forse un po’ distrattamente, e pure forse non abbiamo mai compreso fino in fondo se non ora, ma che risuona adesso ancora come una divisa, sempre più la nostra divisa. Condensa la nostra mission. «Tutto ciò che possiamo decidere è come disporre del tempo che ci è dato» (J.R.R. Tolkien, Il Signore degli Anelli, I, I, II). Ci vediamo nella mischia.
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