Last updated on Agosto 11th, 2020 at 03:26 am
Difendere la libertà di scelta della donna: questa è la bandiera e la motivazione principe di qualsiasi soi-disant e cosiddetto pro-choice. L’aborto sarebbe insomma una scelta legittima della donna, che deve poter disporre del proprio corpo come meglio preferisce. Secondo questo principio l’aborto deve essere dunque semplice, facilmente fruibile, veloce. L’aborto farmacologico, disponibile online con tanto di recapito a domicilio delle pillole abortive, in tempi di coronavirus è l’ultima frontiera della “salute riproduttiva”, tanto da diventare condizione per ricevere gli aiuti umanitari stanziati dall’Organizzazione delle Nazioni Unite.
Il processo dell’aborto chimico funziona così: alla donna vengono somministrati due farmaci, il primo è il mifepristone (chiamato anche pillola abortiva, RU-486 o Mifeprex), che impedisce all’utero di assorbire il progesterone, ormone necessario per lo sviluppo della gravidanza e la sopravvivenza del bambino. Provoca inoltre l’allentamento della cervice, preparandola per l’espulsione del feto. Questa pillola può essere usata fino a 9-10 settimane di gestazione, quando la placenta può produrre da sola il progesterone necessario, rendendo inefficace il mifepristone. Circa due giorni dopo l’assunzione, viene somministrato il secondo ciclo di trattamento, chiamato misoprostol: questo farmaco provoca le contrazioni che aiutano la donna a espellere il feto e la placenta. Il processo si completa genericamente entro le 24-48 ore dopo l’assunzione della seconda pillola.
L’inversione in extremis
Ma cosa accade a una donna, se, dopo l’assunzione della prima pillola, cambia idea? L’eventualità non è del resto così remota, tanto da essere inserita nei Protocolli Assistenziali per le IVG, dove si afferma che «la donna può interrompere in qualsiasi momento il trattamento farmacologico, potendo decidere di proseguire la gravidanza», cioè può – dopo l’assunzione del mifepristone – sospendere l’assunzione del misoprostol, nella speranza che lo scarso apporto di progesterone determinato dalla prima pillola non abbia interrotto la gravidanza. Sarà necessaria una verifica tramite ultrasuoni per assicurarsi della presenza del battito del feto.
Evidentemente l’incidenza di questi eventi deve essere non trascurabile, tanto che c’è chi ha immaginato una procedura di “inversione della pillola abortiva” tramite la somministrazione di progesterone, il medesimo trattamento utilizzato nei casi di minaccia d’aborto spontaneo. La procedura può avvenire solo dopo che la prima dose di mifepristone è stata assunta per via orale ed è inefficace dopo la seconda serie di pillole contenenti misoprostol. Il mifepristone si lega ai recettori del progesterone nella placenta e nell’utero e blocca il progesterone dal legame, impedendo il normale effetto del progesterone sul feto. Se il corpo è inondato di progesterone, l’idea è che i livelli più alti di progesterone supereranno il mifepristone nei punti di legame.
Bimbi come gli altri
Il tempo è un fattore essenziale. È infatti necessario avviare il protocollo entro 24 ore dall’assunzione di mifepristone. Secondo il sito statunitense Abortion Pill Rescue, ci sono state inversioni di successo quando il trattamento è iniziato entro 72 ore dall’assunzione della prima pillola abortiva.
Il progesterone è stato utilizzato in sicurezza in gravidanza per oltre 50 anni e gli studi iniziali mostrano che il tasso di difetti alla nascita nei bambini nati dopo l’inversione del processo abortivo è inferiore o uguale al tasso registrato nella popolazione generale. Né mifepristone né progesterone sono cioè associati a difetti alla nascita.
L’American Association of Pro-Life Obstetricians and Gynecologists ritiene che la procedura sia sicura e significativamente più efficace dello stare a “vedere cosa succede” senza il secondo farmaco, misoprostol.
Ovviamente un trattamento clinico avrebbe bisogno di una sperimentazione per essere scientificamente fondato, sperimentazione che – nonostante gli evidenti problemi etici soggiacenti – era stata iniziata, ma che si è dovuta interrompere prematuramente perché tacciata di “pericolosità”. Effettivamente, delle 12 donne prese in considerazione nello studio, tre hanno presentato un sanguinamento eccessivo, che ha richiesto trattamento medico urgente. Perciò, da più parti si è obiettato che non ci sarebbe alcuna evidenza scientifica a sostegno della pillola per l’inversione dell’aborto o, addirittura, che alcuni studi mostrino quanto quei trattamenti siano invece positivamente pericolosi.
To’, gli abortivi fanno male
Eppure, la somministrazione di progesterone è la terapia consigliata in caso di minaccia di aborto, senza alcun rischio di sanguinamento uterino, evento per cui il progesterone è piuttosto appunto la terapia consigliata. Non c’è bisogno di più che semplice buon senso per riconoscere che il sanguinamento delle donne oggetto di studio è stato determinato dall’assunzione della prima pillola abortiva, il mifepristone, che ha il sanguinamento tra gli effetti collaterali e può arrivare fino a provocare la morte della donna che l’ha assunta.
Eppure chi si batte per “la libertà della donna” afferma che i trattamenti di inversione dell’aborto siano in sé pericolosi, sostenendo che «la decisone se abortire o meno deve essere presa prima dell’assunzione della prima pillola abortiva». Dopo, la scelta della donna non ha più valore, non ha più interessante, l’aborto che è iniziato non si può e non si deve più fermare, nonostante i primi studi mostrino un tasso di successo poco inferiore al 70% dei casi. Cioè, su 10 donne che hanno cambiato idea quasi 7 hanno potuto stringere tra le braccia il proprio bambino. Effettivamente è una circostanza troppo pericolosa perché le donne possano essere lasciate libere di scegliere.
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