Last updated on Settembre 25th, 2022 at 05:19 am
C’è un vocabolo della lingua italiana che mi perfora, trapassandomi da parte a parte, ogni volta che lo sento buttare lì: «incurabile». Si usa per i malati terminali e comunque per i malati a termine. Ma è un vocabolo insipido. Tutto, infatti, di ciò che è umano è incurabile, per definizione. La vita, le cose, i rapporti, tutto. Tutto è a termine, tutto finisce, non resterà pietra su pietra. Selezionare allora qualcosa che sia «incurabile», come se altro, tutto il resto, non lo fosse, è una sciocchezza. Dal momento del nostro concepimento siamo tutti automaticamente, inesorabilmente, un passo più prossimo alla nostra morte, e per quanto ci diamo da fare, non possiamo mai cambiare questa ineluttabilità.
Ma si regge tutto su un equivoco a dir poco imbarazzante. Quando si dice «incurabile» il più delle volte si intende «inguaribile». Ho inteso dire «inguaribile» io stesso qui sopra, introducendo il ragionamento sul tutto umano che scorre e la cui fine non si può mai evitare. «Inguaribile» significa appunto che la caducità non possa essere elusa, che la fine possa essere solo un poco rimandata, ma mai annullata e (più a bomba) che ci siano malattie che non si possano guarire, sconfiggendole del tutto. Ora, considerato che di qualcosa tutti almeno una volta nella vita si muoia, e che dunque la malattia vinca sempre lei, «incurabile» non è mai qui la parola adatta. La si usa cioè a sproposito, sbagliando, con errore da matita rossa.
«Incurabile» fa il paio con locuzioni tipo «brutto male». La nostra paura di fronte all’ineluttabile ci fa proferire parole assurde: come se esistesse un “male bello”. Tutti i mali, tutti i morbi, tutte le malattie sono brutte. Qualcuno si è mai infatti divertito ad ammalarsi, a subire un contagio, a rompersi un braccio? Le malattie sono proprio una delle manifestazioni sensibili della patologia del male in cui l’uomo è tutto sempre immerso, e appunto affatto solo nel senso medico, clinico dell’espressione.
Il mondo in cui viviamo, cioè, stigmatizza i «brutti mali», evitando di nominarli, per la paura che ha del loro suono e si dilania, uscendo letteralmente di testa, perché sono «inguaribili». Ma non c’è da farlo. Perché dei mali inguaribili, cioè di tutti i mali, giacché tutti i mali sono inguaribili, nemmeno uno è incurabile.
Si curano tutte le malattie, si curano tutti i morbi, si curano tutti i mali. Si curano tutte le guarigioni, si curano tutte la salubrità, si cura tutta la salute. Si cura la salute del corpo e si cura quella dell’anima; si cura la salute del pensiero e quella della mente in corpore sano o malato o terminale o immobilizzato o in coma; si cura la salute dello spirito e ci si cura di sé; si cura il prossimo e si fa economia, oikonomia, osservando le regole che tutelano e che preservano e che tramandano i beni, il bene della casa. Si curano la società, la politica, gli affari, la religione. Si cura tutto di ciò che è umano, proprio tutto.
Perché di ciò che è umano ci si prende cura, ci si prende cura del mondo, si ha cura delle cose tutte. Non si guarisce ultimamente mai nulla, e ogni guarigione è solo una dilazione di pagamento della inevitabile maxi-rata finale, sempre una botta, e invece si cura tutto, ci si cura di tutto.
A nessun medico, a nessuna persona può essere imputata l’omissione di guarigione, ma quella di cura sì. Il vecchio peccato di omissione della tradizione cattolica è questo e niente altro. Ma i laici, gli atei non ne sono certo esentati. Il Dio dei cristiani, e degli altri, così come il dio dei non credenti chiederà conto a ognuno non di quante guarigioni abbia prodotto, ma di quanto si sia preso cura.
Curare, e non guarire, è il compito umano supremo. Prestare attenzione, sovvenire, aiutare, tendere la mano, e la guancia, e tutto, tendere se stessi, protesi, protratti, proattivi, pronti. Farsi carico, accogliere, sobbarcarsi, condividere. La famiglia è il luogo della cura massima e totale. Per questo gli anziani e i malati dovrebbero stare lì, essere curati lì. Sia lode ora alla chimica, alle pastiglie, alle pillole, alle iniezioni, al bene enorme della cura domiciliare, alla cura palliativa che non guarisce ma che accudisce, e altro non c’è nella vita prima della morte. Essere voluti. Essere voluti bene: cioè che altri vogliano il nostro bene, e che lo facciano volendoci al mondo per quel che siamo usandoci le buone maniere, educatamente che è già metà della santità, a modino.
Per questo i figli nascono lì nella famiglia. Per questo i coniugi diventano una carne sola. Per questo la famiglia è il modello, non solo, è il perno, non solo, è la società tutta, altro non c’è. Per questo la famiglia va difesa sempre e sempre viene aggredita.
Curare è l’atto più umano che esista, è l’umano. Ed è per questo che è anche il gesto più denegato, rinnegato, dimenticato, caricaturizzato, combattuto, esiliato, cancellato.
Viviamo in un mondo che, correo e colpevole, ci insegna a disperare di fronte a ciò che non deve disperare, giacché ineluttabile (qualcuno si dispera perché la notte segue il giorno?), la sofferenza, il male e la morte, perché ha investito somme ciclopiche in speculazioni off-shore che scommettono tutto nel far credere che ciò che davvero conti sia l’impossibile, cioè guarire. È un mondo medicalizzato, dove comandano i questurini con il camice bianco e lo stetoscopio montati in cattedra e penneggiati di laticlavi, dove nessuno però cura e dove, la guarigione essendo ultimamente impossibile, possa finalmente trionfare, sghignazzando sulle macerie ancora fumanti tra un frusciar d’ali di pipistrello e torve ombre più nere del buio, la morte seconda: la disperazione di chi è lasciato solo, zenit della disumanità.
Aborto, eutanasia, famiglie distrutte: ci sta dentro tutto. Tutto sta dento la grande bugia primordiale dell’«incurabile» servito a pranzo e cena. Io? Io sono un romantico inguaribile, credo che tutto sia curabile. È così che, soffrendo, non si soffre mai, morendo, non si muore mai.