Last updated on aprile 17th, 2020 at 01:15 am
Jessica è una di quelle donne che ha scelto di non vincere il Golden Globe, per questo adesso ha sette figli (tutti maschi, tra 14 e i 2 anni). L’essersi sposata a 21 anni con Marco, però, non le ha impedito – tra una gravidanza e l’altra – di laurearsi in Medicina, diventare anestesista rianimatrice e iscriversi alla specializzazione in Osteopatia (si sa mai avanzasse del tempo “libero”). È anche una sportiva, una rugbysta per la precisione. La prima domanda nasce spontanea:
Jessica, come fai a fare tutto?
Ho sempre viaggiato a 1000 km/h e più di una persona mi ha chiesto come facessi. Non ho mai avuto una risposta, se non che ognuno sta di fronte alla realtà che gli è data. Mai avrei pensato che quella realtà diventasse quella di questi giorni!
Ora ti trovi in prima linea, tra il Pronto Soccorso e la Terapia Intensiva di un grande ospedale di Milano. Come è cambiata la tua vita?
Ho ben in mente il giorno e il preciso istante in cui ho saputo la notizia che il coronavirus era arrivato in Italia, ma per capirne l’immensa portata nelle nostre vite ci ho messo qualche giorno. È così che mi sono ritrovata catapultata in questa quarantena, in cui sono quotidianamente richiamata ad affermare ciò che sono e che ho lottato per essere anno dopo anno. Da settimane indosso ininterrottamente i panni di moglie, mamma e medico. Le mie giornate si alternano tra il grembiule da cucina, la penna da maestra, le urla da mamma, camice guanti e mascherina.
Possiamo solo immaginare i tuoi ritmi di lavoro, che non finisce quando torni a casa. Com’è vivere la quarantena con una famiglia numerosa?
Stare chiusi in casa con sette figli maschi non è certo cosa facile (e di base nemmeno auspicabile), ma confesso che è ancora più difficile starci con solo quattro di loro avendo scelto di mandarne tre fuori casa per tutelare loro ma soprattutto i (santi) nonni cui li abbiamo affidati. E per fortuna la tecnologia ci permette di vederci a distanza! Ecco, la tecnologia… quella che ci sta tenendo compagnia grazie alla scuola online: al secondo giorno ho fatto una “sclerata” tale che il marito ha deciso che forse avevo bisogno di una mano (cosa più unica che rara) e si è formato un tale tam tam che ci sono stati prestati due pc: sarebbe stato impossibile gestire gli impegni scolastici di tutti i figli, altrimenti.
E poi c’è il lavoro, che si infiltra in ogni angolino libero: il tempo in ospedale e quello passato a studiare, leggere e confrontarsi; il tempo degli sguardi complici e sfiniti tra colleghi e quello in cui si osservano e ascoltano le paure dei malati. C’è poi il tempo del ritorno a casa, quella casa che hai paura di infettare a causa del lavoro che fai. È un tutt’uno dall’inizio alla fine delle giornate, un mescolarsi di tutto quello che sono.
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In questa “mescolanza” di ruoli che ci hai testimoniato, cosa vuol dire per te oggi essere medico?
Non amo raccontare di questo periodo, di quello che vivo e vedo perché la verità è che stiamo facendo semplicemente il nostro lavoro, cioè quello che ci è chiesto e che spesso facevamo anche prima, solo che adesso è drammaticamente più visibile. Non sono, non siamo eroi.
Nel rugby esiste una prima linea di cui tutti sanno i nomi e che finisce in tutte le inquadrature, e poi c’è il resto della mischia, i cui nomi sono spesso sconosciuti ai più, ma senza i quali la mischia crollerebbe. E oggi è un po’ così: siamo tutti chiamati a rimanere compatti e avanzare con la mischia, tutti chiamati in gioco, ciascuno con la propria fatica e difficoltà, ciascuno a fare i conti con la propria difficile quotidianità. A ciascuno è chiesto il suo: alla cassiera di andare al supermercato, alla donna delle pulizie di andare a pulire scale e ospedali, ai proprietari di bar e ristoranti di chiudere. E per ognuno questo è un rischio e un sacrificio. Io sono un medico e a me è chiesto di occuparmi dei malati qui e ora. E così faccio perché la verità è che non vorrei essere in nessun altro posto se non questo, a fare ciò che faccio.
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