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Alla London Fashion Week trionfa il gender

La celebre sfilata senza capi specifici per maschi e per femmine. L’avvento della fluidità sessuale nella moda è iniziato da tempo, e riguarda anche i bambini

Federico Cenci di Federico Cenci
28/04/2020
in Cultura
279
Reading Time: 3 mins read
0
London Fashion Week

Image From Wikipedia

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Last updated on aprile 30th, 2020 at 12:38 pm

Il mantra che si sente ripetere durante l’emergenza coronavirus è che «niente sarà più come prima». La London Fashion Week sembra aver preso alla lettera la frase, portandosi avanti con il lavoro. Si apprende, infatti, che l’importante manifestazione di moda, a partire da giugno, diventerà gender neutral. Basta con l’abbigliamento femminile e maschile: per dodici mesi le sfilate saranno solo ed esclusivamente di abiti androgini. L’inaugurazione di questo nuovo paradigma avverrà il 12 giugno, con una sfilata rigorosamente online a causa delle rigide misure di blocco varate dal Regno Unito per contenere l’epidemia.

«Una vetrina globale per il futuro»

La decisione è stata presa dal British Fashion Council. L’obiettivo è dare maggior flessibilità agli stilisti e offrire spunti di riflessione su come la moda influenzi «società, identità e cultura». Una sorta di esperimento sociale, insomma, per trasferire modelli efebici o sessualmente fluidi dalle passerelle alle strade delle città. «L’attuale pandemia ci sta portando tutti a riflettere in modo più intenso sulla società in cui viviamo e su come vogliamo vivere le nostre vite e costruire attività commerciali quando l’avremo superata», afferma Caroline Rush, amministratore delegato della British Fashion Council. La quale sottolinea pure che «stiamo […] fondando le basi per qualcosa che possa essere una vetrina globale per il futuro».

La decisione presa dalla British Fashion Council è solo l’apice di un lento ma costante processo di fluidità sessuale in atto nell’ambito della moda. Nel 2018 il Council of Fashion Designers ha aggiunto la nuova categoria «unisex/non binario» alla settimana della moda di New York. E sono ormai molti i marchi, anche famosi, che hanno deciso di aggiungere ai propri listini linee definite «no gender». Un anno fa il Time ha dedicato alla questione uno speciale dal titolo Beyond he or she, “Oltre lui o lei”. La nota rivista statunitense ha citato uno sondaggio commissionato da un’organizzazione LGBT dal quale emergerebbe che il 20% dei millennial (i nati tra il 1981 e il 1996) non si riconosce nella categoria eterosessuale contro il 7% dei boomer (i nati tra il 1946 e il 1964). Secondo molti osservatori sarebbe questa emergente fetta di mercato a spingere il mondo della moda a orientarsi verso l’abbigliamento «no gender».

L’abbigliamento per bambini

Una spiegazione così appare, tuttavia, quantomeno parziale. La stessa Caroline Rush della British Fashion Council ha parlato di moda che influenza la società, non viceversa. E poi, se fosse soltanto una scelta commerciale dettata dalla domanda, non si capirebbe il motivo per cui alcuni marchi stiano producendo abbigliamento «no gender» per bambini. John Lewis, uno dei grandi magazzini britannici con sede a Londra, ha deciso di eliminare le etichette «Boys» e «Girls» per gli abiti fino ai 14 anni. Prima ancora, nel 2015, erano stati i magazzini Selfridges a lanciarsi in una campagna simile, chiamata «Agender». Sono persino nati marchi specializzati nella produzione di abbigliamento per la primissima infanzia privo di «stereotipi sessuali». Certe innovazioni lasciano però perplessi molti genitori. Sul celebre social di mamme Mumset, una di loro scrive: «Personalmente vorrei vedere più cose tradizionali da maschi nella sezione per ragazzi e più cose da femmine in quella delle ragazze. Perché siamo così contrari a lasciare che le femmine siano femmine e che i maschi siano maschi?». Già, bella domanda. Perché?

Tags: Gran BretagnaInghilterraLondramodaRegno Unito
Federico Cenci

Federico Cenci

Dal 2013 al 2017 ha lavorato all’agenzia cattolica di stampa Zenit occupandosi di temi sociali e religiosi, bioetica, politiche familiari, nonché politica interna ed internazionale. Ha quindi proseguito l'attività con In Terris, e attualmente con vari giornali e periodici. Nel 2020 ha scritto il romanzo "Berlino Est 2.0 - Appunti tra distopia e realtà"

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