Aborto: spending review?

Davvero è meglio che a performare questo abominio sia lo Stato e non il privato?

Forbici

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Last updated on Luglio 8th, 2021 at 05:53 am

Il nodo scoperto dal rapporto I costi di applicazione della legge 194/78 in Italia sollecita riflessioni da cui International Family News non vuole esimersi, offrendole come contributi a un dibattito importante.

La questione del costo economico dell’aborto per sottolineare il costo umano dell’aborto non può infatti essere semplicisticamente ridotta al conflitto privato vs. pubblico, o mercato contro Stato.

Anzitutto per non ripetere la solita sciocchezza secondo cui solo ciò che è statale sarebbe pubblico e ciò che è invece finanziato privatamente sarebbe soltanto privato. L’aborto finanziato privatamente è infatti un res publica: un abominio pubblico e una piaga che zavorra l’insieme dei cittadini italiani (il pubblico). In secondo luogo per non demonizzare acriticamente (leggi ignorantemente) il “mercato”.

Il mercato

Il mercato non è una persona, bensì un luogo. Una piazza, per definizione aperta e auspicabilmente ampia. Ci si entra, ci si esce e lo si fa sempre come si e con quello che si è, ovvero con quello che si fa, con quello che non si fa, con quello che si compera, con quello che si vende, dunque con quello che si sceglie di comperare o di non comperare, con quello che si sceglie di vendere o di non vendere. Già, alcune cose non si vendono: perché non si possono vendere e non si debbono vendere. Quel che invece si vende, e quel che si compera, lo si fa essendo le persone che si è. Portando, cioè, sulla piazza del mercato-luogo  i princìpi in cui ci si riconosce (non negoziabili) sui quali vengono misurati i valori (oggetto di negozio, la bottega chiamandosi così proprio per questo motivo) e i prezzi, per esempio.

Il mercato è buono o è cattivo, migliore o peggiore, a seconda dei mercatores. Lasciando il mercato ai cattivi mercatores, si avrà inevitabilmente sempre e solo un mercato cattivo.

Il mercato-luogo è poi ciò che permette a noi («iFamNews») non ricchi e no-profit di vivere, non solo sopravvivere, e operare. Come ricorda bene l’economista francese (cattolico) Frédéric Bastiat (1801-1850), la carità (e le donazioni) le si possono fare solo se si ha del denaro risparmiato da parte, ovvero della ricchezza. Ma non ci voleva certo lui per dirlo. E tutto sommato – un pensiero, questo, che parrebbe non essere stato estraneo a santa Teresa di Calcutta (1910-1997) – le persone ricche sono indispensabili per poter aiutare le persone povere. Del resto il mercato libero dell’economia (quello che acriticamente, quindi spesso maldestramente, viene chiamato «capitalismo», un termine che è un sinistrismo) lo hanno “inventato” i monasteri benedettini sin dall’Alto Medioevo e “reinventato” i francescani onde reinvestire il surplus della produzione monastica in bene sociale (spiega lo storico belga Léo Moulin [1906.1996]) e avendo bisogno di liquidi con cui aiutare i poveri loro che, personalmente, avevano scelto di nulla possedere (come illustrano gli studi dello storico e filosofo dell’economia Oreste Bazzichi).

Pubblico e privato

Ma non perdiamo il filo. Se il mercato è questo luogo dove i mercatores agiscono nei modi suddetti, chi ha detto che sia meglio l’aborto praticato dallo Stato, che ne addebita i costi ai propri cittadini anche contro la loro volontà, invece che un soggetto privato?

Anzitutto, se a praticare e a pagare l’aborto fosse un soggetto privato, si sarebbe di fronte a un’azione di valore pubblico finanziata privatamente che almeno non costringerebbe, attraverso il costo economico dell’aborto pagato in tasse, anche i non-abortisti alla complicità nel costo umano dell’aborto.

E poi forse qui si configurerebbe pure un caso da manuale, non del privato pubblico bensì del privato privato: un privato che svolge azione privata pagandola privatamente. Un male minore (non nel senso morale, bensì nel senso che è numericamente minore l’entità dei soggetti convolti e delle risorse impiegate) dell’aborto socializzato, salutato con favore dell’ordinamento di un Paese civile e democratico, e addebitato a tutti i cittadini indistintamente, compresi i non-abortisti.

Stante che la soppressione di un individuo (privato) è sempre (anche) un male sociale (pubblico), finisce per rafforzarsi ulteriormente la dimensione pubblica del privato, persino spesso del privato privato (il cui dominio è quindi davvero esiguo), sbaragliando una volta per tutte l’idea che sia pubblico solo quanto è statale.

Legalizzare e socializzare (anche nei costi, oltre che nelle responsabilità) riduce il danno dell’aborto? Se fosse così, basterebbe legalizzare l’omicidio per vedere scomparire le denunce di delitti. Se fosse così, avrebbero ragione quanti sostengono che, onde sconfiggere le mafie (privato), basta far spacciare droga allo Stato.

Spendere

Forse che evidenziare il costo economico dell’aborto per sottolineare il costo umano dell’aborto finisca per favorire i fautori dell’aborto chimico, più rapido, “indolore”, “discreto” e conveniente? A parte il fatto che al popolo dell’aborto e a qualche ministro solidale con esso si dovrebbe, in questo caso, subito rigirare la frittata, additando loro per economicismo e svilimento cash della vita umana, il punto è che c’è il carovita. La vita costa.

Non è una gran scoperta nemmeno questa, e per rendersene conto basta appunto vivere, morti, sbrigate le esequie, essendo a costo zero. Ma è forse questo un ragionamento? Se lo fosse, come sostenevano alcuni eretici del socialismo chiliastico dei tempi andati, faremmo allora meglio a toglierci tutti di mezzo, raggiugendo la sostenibilità economica ubiqua in un batter d’occhio.

Insomma, fosse puta caso anche vero che conservare la vita costi più di dare la morte, e spendiamoli questi benedetti denari, ché tanto nella tomba non ce li porteremo.

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