Aborto, effetto boomerang negli USA?

L’elettorato sembra convinto dalla narrazione liberal sulla perdita di “diritti” e questo condizionerà il voto dell’8 novembre. Ma è davvero così?

aborto USA

E se la sentenza del 24 giugno con cui la Corte Suprema federale degli Stati Uniti d’America ha sbaragliato la bugia dell’aborto come diritto costituzionale finisse per essere un boomerang?

È il pericolo che ha paventato The Wall Street Journal il 3 settembre, sventolando i sondaggi relativi alle elezioni «di medio termine» che l’8 novembre rinnoveranno quasi per intero il Congresso federale. Parrebbe infatti che il numero degli elettori filoabortisti stia crescendo, ovvero che la sentenza del 24 giugno abbia “spaventato” diverse frange della popolazione, proiettando ombre nere sul voto.

Ora, il voto dell’8 novembre è importante proprio a questo proposito. Una maggioranza filoabortista nel Congresso che verrà eletto potrà infatti permettere alla lobby contro la vita di sabotare la sentenza della Corte Suprema attraverso una legge parlamentare che blindi nuovamente l’aborto a livello federale.

Ma davvero le forze filoabortiste sono in crescita, e in crescita tale da mettere in pensiero il fonte pro life? Ovvero, la maggioranza degli statunitensi che l’8 novembre andranno a votare ritiene sul serio la sentenza del 24 giugno un errore, disponibile ad aiutare l’opera di sabotaggio sperata dal Partito Democratico?

Per Frank Schubert, esperto di sondaggi e di campagne elettorali, la risposta è complessa. «Prima della sentenza del 24 giugno, l’aborto era una questione ampiamente teorica. Si combatteva per arginarlo qua e là, ma nessuno immaginava il ribaltamento della sentenza del 1973. Adesso però quel ribaltamento è una realtà e l’aborto è al centro della politica in modo concreto. La narrazione corrente definisce quindi i Democratici come i difensori dei “diritti riproduttivi” contro i Repubblicani descritti come coloro che quei diritti li vogliono invece comprimere».

Questa narrazione, oramai standard, alimentata fortemente dai media, ha preso piede e i Repubblicani segnano il passo. «La strategia comunicativa dei Repubblicani su questo punto», spiega Schubert, «è oggi davvero povera. Nel passato recente, spesso i consulenti dei candidati Repubblicani li hanno consigliati di evitare, durante le campagne elettorali, i temi sociali divisivi come l’aborto e il risultato è che adesso molti di quei candidati hanno paura a farlo».

Così sono gli avversari a imporre le regole del gioco e soprattutto la narrazione. «Dell’aborto invece i Repubblicani dovrebbero parlare, e molto», consiglia Schubert. «Dovrebbero dire la verità in campagna elettorale. Spiegare che la sentenza del 24 giungo non è affatto la negazione di diritti e di libertà: piuttosto essa dà modo e spazio ai cittadini statunitensi di discutere seriamente dell’aborto, di come esso debba essere regolamentato, dei suoi limiti, delle sue condizioni e così via. Insomma, un momento finalmente libero di confronto autentico che è mancato per mezzo secolo, soffocato dalla cappa imposta dalla sentenza nel caso “Roe v. Wade” che aveva azzerato ogni dialogo e ogni ragionamento».

Ancora una volta, cioè, i buoni risultati politici non bastano per vincere davvero i confronti. Occorre saperli comunicare adeguatamente, insegnandone le virtù ai cittadini. Adesso sarebbe un guaio enorme se il bene che la sentenza del 24 giugno consente venisse azzerato dall’incapacità di comunicare questo vantaggio. La Corte Suprema ha fatto il proprio dovere il 24 giugno, ora tocca alla politica fare il proprio in vista dell’8 novembre, cioè anzitutto comunicare il male totale che verrebbe al Paese se una maggioranza filoabortista nel Congresso che sarà eletto dovesse legiferare sull’aborto. E anche l’elettorato deve fare la propria parte, azzoppato sì magari da una cattiva comunicazione da parte della politica, ma responsabile in prima persona, se cede alle sirene della menzogna.

Sì, il pericolo paventato dai sondaggi e da The Wall Street Journal esiste, e il tempo per ricuperalo è tiranno. Ma non va nemmeno scordato, aggiunge Brian Brown, presidente dell’International Organization for the Family ed editore di «iFamNews», la costante dell’«Effetto Bradley», da Tom Bradley (1917-1988), sindaco Democratico di Los Angeles che nel 1982 fu sconfitto dal rivale Repubblicano George Deukmejian (1928-2018) per il posto di governatore della California nonostante tutti i sondaggi lo dessero in vantaggio enorme. L’orientamento conservatore è ritenuto socialmente arretrato dai media, che quindi tendono sempre a sottovalutarne la forza. In Italia lo si chiamerebbe forse “Effetto maggioranza silenziosa”, ma, invertendo vincitore e sconfitto, dalle presidenziali del 2016, si potrebbe pure ribattezzarlo “Effetto Trump”.

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