Last updated on Gennaio 28th, 2021 at 01:06 pm
«Non voglio nascondere la realtà, arriva un anno difficile. Abbiamo già tagliato molto, certo, ma forse non sarà sufficiente». La voce del capo arriva dal computer. È l’ennesima riunione via Skype. Alzi lo sguardo dal taccuino e lo ritrovi in quello degli altri collaboratori più giovani. Ci si guarda ormai con rassegnazione, perché questa frase è il tormentone delle conference call in tempo di pandemia e c’è una parte non detta che si conosce benissimo: «Se c’è da tagliare, tagliamo i giovani». Certo, in teoria in tempo di crisi bisognerebbe tagliare chi non lavora o lavora male, ma spesso si finisce per tagliare i costi più tagliabili, e contrattualmente sono quasi sempre i giovani i soggetti più deboli. Da febbraio a oggi molte parole diverse sono andate in tendenza sui social, molte frasi hanno conquistato le prime pagine dei giornali. Nessuna riguarda i giovani e il loro futuro, che si fa sempre più precario. «L’Italia non è un Paese per giovani», sussurrano come sirene zombie gli adulti garantiti, perché spargere disfattismo è uno sport ben più amato del calcio.
Parola d’ordine? Solitudine
I giovani che frequentano le scuole superiori sono ancora a casa, di fronte a uno schermo, a seguire lezioni online e poi a navigare in libertà per passare il tempo. Certo, la scuola italiana ha mostrato negli anni tutti i propri limiti, ma è cento volte meglio di questa didattica a distanza.
I giovani che frequentano l’università sono in remoto, anche loro di fronte a uno schermo, spesso in altre città, a centinaia di chilometri da casa. E l’isolamento li lascia più soli di prima. I giovani che lavorano fanno i conti con un ciclone che la crisi sta rendendo ineluttabile. A loro è chiesto di essere sempre più smart, sempre più flessibili, sempre più aggiornati. E i loro contratti si fanno sempre più brevi, sempre più labili, sempre più poveri.
Ai giovani è stato tolto tutto: la scuola, con le sue scoperte, le amicizie reali e i drammi adolescenziali, la libertà (a volte eccessiva) di uscire, di fare tardissimo la sera, di fare pizzate assembrati, di fare il percorso più lungo per arrivare a casa perché nello zaino c’è una verifica con sopra un “3” grande come il foglio. Sono state tolte le attese in università, tra una lezione e l’altra, le chiacchiere fuori dalle aule, quegli incontri alle macchinette durante i quali nascevano dibattiti e progetti. Si chiacchierava, ci si infervorava, a volte si flirtava anche, dal vivo, occhi negli occhi, cercando di captare le avvisaglie di un sorriso.
Ai giovani più grandi sono stati cancellati i colloqui di lavoro, con tutto il rimescolamento emotivo che comportano. Con la scelta dell’outfit serio ma non serioso e con la barba da fare evitando stragi e cerotti. I primi giorni nel nuovo posto di lavoro, gli sguardi sospettosi o fintamente solidali di alcuni colleghi, i consigli preziosi del vicino di scrivania che si prende cura della tua storia, che vuole aiutarti a imparare, a fare bene.
E poi…?
No, il 2020 non è un anno da buttare. Ci sono stati sprazzi di luce e anche la sofferenza ha un significato profondo, che richiede meditazione e silenzio per essere compresa. Ma oggi i giovani hanno un disperato bisogno di guardare avanti, di recuperare la propria capacità più brillante: sognare.
Guardare il mondo grigio e vederlo pieno di colori. Ammirare un deserto e immaginarlo fiorito. Osservare una montagna e pensarsi già in cima alla vetta. È ancora il tempo del rispetto delle regole, questo la maggior parte dei giovani lo ha capito, però è fondamentale riattivare i progetti.
La pandemia non durerà per sempre, il CoViD-19 non è l’unica malattia che affligge l’umanità, la morte farà sempre parte della vita terrena: non ci si può lasciar mettere all’angolo dalla paura.
Vivere non significa arrotolarsi in un negazionismo che danneggia le persone più fragili, questo chi si prende cura dell’umano lo sa bene, vivere significa però pensare al futuro e impegnarsi per costruirlo. Anche per le persone più fragili. Perché non c’è futuro per nessuno se una generazione rimane alla finestra, o davanti allo smartphone, a guardare la vita che corre.
«L’Italia non è un Paese per giovani», continuano a ripetere le sirene zombie. «L’Italia è un Paese di pensionati (16 milioni) e di dipendenti pubblici (3,5 milioni)», potrebbe rispondere malignamente un giovane, «con sindacati e partiti amici».
I giovani non hanno sindacati né partiti, i giovani spesso non votano e non fanno lobby, e troppe volte si sono lasciati ingannare dalle favole ideologiche proposte dagli influencer di turno, che li hanno portati in piazza per il riscaldamento globale e non per la libertà di essere istruiti e non indottrinati. Che poi, vai a guardare corsi e ricorsi storici: tutti i venerdì si perdeva un giorno di scuola per salvare i ghiacciai, e poi ci si è trovati a scendere in piazza per poter tornare in aula.
Ma questa guerra fra generazioni e lavoratori non porta a nulla. Se l’Italia riparte, riparte unita, affidando ai giovani la responsabilità di scrivere pagine nuove nella storia. Pensare ai giovani significa riscoprire la generosità di insegnare, la solidarietà di lasciare spazio, l’autorevolezza per poter guidare. Italia adulta, non dimenticarti dei tuoi giovani.
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