L’approvazione alla Camera del «ddl Bazoli-Provenza» sulle Disposizioni in materia di morte medicalmente assistita segna un sovvertimento del principio dell’indisponibilità della vita ma rischia anche di sconvolgere il funzionamento del sistema sanitario italiano. A riguardo «iFamNews» ha raccolto il parere di Domenico Airoma, Procuratore della Repubblica di Avellino e vicepresidente del Centro Studi Rosario Livatino.
Dottor Airoma, è stata approvata una legge di orientamento eutanasico. Fino a che punto è stato rispettato l’indirizzo impresso dalla Corte Costituzionale?
Che sia una legge eutanasica, lo hanno dichiarato nel momento in cui hanno respinto l’emendamento con il quale si chiedeva di inserire un richiamo esplicito alla sentenza della Corte Costituzionale n°242/2019. Con tutti i suoi limiti, questa sentenza pone alcune questioni e anche alcuni paletti: innanzitutto dice che nel nostro ordinamento non è mai ammissibile, né riconoscibile un aiuto al suicidio. L’interesse a morire non è meritevole di tutela, sarebbe un controsenso in un ordinamento giuridico. I paletti della Corte Costituzionale sono stati travolti anche ampliando le condizioni per cui può essere avanzata la richiesta per la «morte medicalmente assistita» (formulazione molto retorica che viene smentita negli articoli seguenti in cui si introduce un vero e proprio trattamento eutanasico). Si introduce poi il riferimento alla «condizione clinica irreversibile», che può essere anche quella degli effetti dal diabete. Un’estensione che, in teoria, può essere anche senza limiti e confini.
Altro aspetto controverso: i giudici che decidono sulla vita delle persone…
Come per l’aborto, si mette in piedi una procedura medico-burocratica che chiama in causa la commissione clinica e poi, in caso di conflitto, decide il giudice. Questo è un altro aspetto da sottolineare: se c’è una richiesta, che poi viene addirittura valutata da un giudice, siamo di fronte ad un diritto al suicidio. Se il comitato dice di no, ci sono le condizioni per un conflitto e si va davanti al giudice, un po’ com’è successo nei casi dei piccoli Charlie Gard e Alfie Evans nel Regno Unito. È il giudice, quindi, che decide quale sia il «miglior interesse» e, in questo caso, sappiamo perfettamente che, nel momento in cui si introduce un aiuto al suicidio, non si assicura più la prevalenza dell’interesse a vivere ma, più che altro, un “interesse a morire”, se ci sono determinate condizioni di vita non dignitose. Se una vita non vale più per sé, viene meno il principio di indisponibilità, principio di garanzia per tutti. Se si introduce il principio della disponibilità, quindi il giudice potrà disporre della vita in base ai parametri in base ai quali riterrà se una vita è degna di essere vissuta o meno.
Il tutto con buona pace del principio di autodeterminazione che i Radicali, primi fautori dell’eutanasia in Italia, hanno sempre sbandierato…
L’autodeterminazione è una truffa, dal momento in cui facciamo venir meno uno dei principi cardine della dignità dell’uomo: l’indisponibilità della vita. Per chi non sarà capace di assumere scelte in condizioni di libertà, sarà un altro a prendere le decisioni. Ci sono condizioni nella vita, che spingono alcuni a voler farla finita, proprio perché sono in una condizione di debolezza. Se però la vita di chi soffre diventasse disponibile, metteremmo sotto i piedi la dignità dell’uomo. Affermare che il bene della vita non è disponile non significa “condannare a vivere” qualcuno ma tutelarlo anche nel momento in cui la vita diventa fonte di sofferenza. È proprio in quel caso che deve essere tutelata maggiormente la sua dignità.
Tanto è vero che, nel 2010, fu approvata la legge sulle cure palliative, più volte invocata dai parlamentari contrari all’eutanasia. Che fine fa questo principio se viene approvato il cosiddetto «suicidio assistito»?
Questa legge travolge un altro principio che la Corte Costituzionale aveva stabilito. Quando una persona formula una richiesta di morte medicalmente assistita dovrebbe essere effettivamente prima interessata da un percorso di cure palliative. Ciò è fondamentale perché c’è un diritto ad essere accompagnati nel morire non a morire. Cappato accompagnò DJ Fabo a morire. Essere accompagnati nel morire significa invece ricevere le cure palliative in strutture dedicate. La Legge 38/2010 è rimasta in gran parte inattuata. Perché si è preferito introdurre una legge come quella sulla morte medicalmente assistita? Per una questione di bilancio? È più comodo affrontare la questione della sofferenza eliminando il sofferente, piuttosto che prendersi cura di lui? Questo è un altro aspetto che qualifica questa legge: la sostanziale abrogazione delle cure palliative. È una legge che trasforma il sistema sanitario nazionale in un’agenzia viaggi verso la morte. A questo punto che interesse avrebbe il sistema sanitario nazionale a spendere soldi per le cure palliative se si può abbreviare il tutto e organizzare un viaggio verso la morte? Questo è un altro punto fondamentale che ancora una volta qualifica la legge in termini eutanasici. È una legge terribile, che attacca alle fondamenta il diritto dei più deboli a essere protetti. Li tratta come scarto.
Al Senato, sarà possibile respingere il disegno di legge o, quantomeno, depotenziarlo?
Si può sperare che accada quello che accadde con il «ddl Zan». Si deve sperare che i parlamentari che hanno a cuore i deboli possano agire e far sentire la propria voce. Non è l’unica strada. Io sono molto critico con la sentenza della Corte Costituzionale ma questa legge non è l’unico modo per darvi attuazione. C’è anche la possibilità di intervenire sul Codice Penale, introducendo delle forme attenuate di responsabilità in determinate circostanze. Questo avrebbe significato tenere in piedi il principio dell’indisponibilità e continuare a tutelare i deboli, mantenendo quella cintura protettiva che non può venire meno, specie in condizioni di debolezza e di sofferenza. Questa forma di indoramento e di buonismo nasconde un volto profondamente ingiusto. Quando il diritto perde la sua funzione di tutelare i più deboli, siamo nel bel mezzo di un’inciviltà giuridica.