“Glossario” UE, glossario uè

Scapperebbe a ridere, ma è uno degli strumenti con cui, scissa la verità dalla giustizia, si perseguita la realtà

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Last updated on aprile 28th, 2021 at 02:32 am

All’Unità di Uguaglianza, Inclusione, Diversità della Direzione generale del Personale del Parlamento Europeo sembrano avere preso il testimone dall’ufficio in cui si preparava «un nuovo vocabolario autorizzato, distribuito gratuitamente in ogni casa, nel quale tutte le parole sarebbero state suddivise in due soli gruppi: parole positive e parole negative», frutto della fantasia letteraria dello scrittore danese Henrik Stangerup (1937-1998), il quale, nel 1973, descrisse, ne L’uomo che voleva essere colpevole, uno scenario futuribile che, come una profezia autoavverante, si è puntualmente realizzato. In sostanza, questo è il fulcro della notizia. Il resto non sono propriamente dettagli, ma la declinazione di una volontà politica di controllo sociale, che si esprime nell’imposizione di quanto si può e quanto non si può dire, scrivere e, forse, nemmeno pensare.

Per orientarsi nella giungla terminologica, occorre un manualetto, che a mo’ di cartina topografica indichi se ci si sta inoltrando in terreni proibiti o selvaggi ed eventualmente come ritrovare la via d’uscita. Allo scopo, attraverso una genesi lunga che varrebbe la pena di approfondire negli aspetti filologici, con l’ausilio della Direzione per le Traduzioni e di quella per la Comunicazione dello stesso europarlamento, è stato pubblicato un «Glossario del linguaggio “sensibile” per la comunicazione interna ed esterna» allo scopo di aiutare il personale a comunicare in maniera adeguata negli ambiti della disabilità, della questione LGBT+, nonché in materia di etnia e di religione.

Adesso si consiglia, per esempio, di tornare a dire «cieco» poiché «non vedente» sa troppo di “politicamente corretto” e può risultare irritante. Insomma «la regola d’oro che consigliamo a tutti i membri del personale è chiedere all’interessato con quali termini preferisca che ci si rivolga a lui». Se no, si consulti la guida. Meglio però impararla a memoria, poiché il trabocchetto è sempre dietro l’angolo. «Bianco» è da preferire a «caucasico», ma meglio «di colore» che «non bianco», «asiatico» piuttosto che «orientale» e via di questo passo.

Se qualcuno vuole essere chiamato «frocio», «checca» o «finocchio» mica glielo si può insomma impedire: ma deve autorizzarci lui. A scanso di equivoci, il capitolo LGBT+ del “Glossario” chiede di evitare di parlare di «sesso biologico», privilegiando piuttosto la dizione «sesso assegnato alla nascita» in obbedienza al postulato ideologico della liquidità, secondo il quale si potrebbe cambiare identità di genere ogni quarto d’ora. Quindi, visto che il modello del proteo sempre cangiante assume continuamente nuove forme e nuova sostanza, bisogna poi prestare particolare attenzione all’ampliamento del catalogo “patologico”: dalla classica omofobia, si passa a «gayfobia», «lesbofobia», «bifobia», «transfobia» e «interfobia», senza porre limiti alla fantasia. Se è ammesso l’utilizzo, sia come sostantivi sia come aggettivi, di «bisessuale», «pansessuale» e «omnisessuale», si tenga conto che il percorso è irto di ostacoli perché «possono essere considerati offensivi» da chi ritiene che «l’utilizzo di tali denominazioni riduca la persona in questione unicamente a questa caratteristica». Segue una curiosa lista di neologismi, fra i quali «deadname», che sta a indicare il nome attribuito all’anagrafe a una persona transgender al momento della nascita, sebbene sia da cancellare, poiché non corrisponde più al desiderio del soggetto e alla sua autopercezione. Se poi costui o costei si sottopone a un intervento per la riattribuzione del sesso, non è consentito riferirsi all’operazione come a un “cambio di sesso”, dato che la formula appropriata è «chirurgia di affermazione di genere».

Non c’è pace nemmeno per i “vecchi” eterosessuali, che magari si sentono “normali”, ma ora sono «cis» o «cisgender» oppure «binari» (ma le rotaie qui non c’entrano), e non hanno relazioni con persone «di sesso diverso», ma «di sesso opposto». A costoro, che sono tutto sommato la maggioranza dei cittadini comunitari, infatti, va impedito di propagare il germe della cosiddetta «eteronormatività», quella particolare «presunzione che l’eterosessualità sia la norma e che le relazioni eterosessuali siano il punto di riferimento per determinare quel che è normale e cosa no». Meglio tacere, a questo punto, per non sbagliare? No, non è permesso nemmeno il silenzio, perché si tratta di temi quotidianamente all’ordine del giorno dell’assemblea parlamentare dell’UE, dove interpreti e portavoce sono sottoposti a uno stress paragonabile a quello degli sport a rischio. Perché, se a un vertice un ministro dovesse osare pronunciare la parola «padre» o «madre», la sua espressione antiquata andrebbe corretta senza indugio con un più moderno «genitore». Ne andrebbe dell’autenticità del testo originale, ma da quando la verità e la giustizia sono state scisse, è un problema secondario.

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