Last updated on Giugno 8th, 2021 at 08:57 am
A Gay Times sventolano la notizia come una bandiera: l’Amministrazione Biden vuole che bandiera arcobaleno sventoli sulle ambasciate statunitensi del mondo.
Tecnicamente, le ambasciate possono, se vogliono, sventolare la bandiera LGBT+ dai palazzi della diplomazia nelle capitali del globo, visto che, riferisce Foreign Policy, il Segretario di Stato, Antony Blinken, ha concesso l’autorizzazione. Spiega infatti The New York Times che l’autorizzazione non è una imposizione e che ogni responsabile potrà decidere di testa propria. Ma se volere è potere, potere poi diventa facilmente dovere. Solo l’idea che possa essere concessa un cosa così vuol dire che l’Amministrazione benedice che cose così avvengano il più possibile, potenzialmente sempre, ovunque e comunque. Non ci vuole, del resto, un fine logico per affermarlo, visto che Biden ha esplicitamente transgenderizzato la propria proposta politica, volendo leggere tutto ed esclusivamente nell’ottica LGBT+ e dicendo esplicitamente che è il gender la priorità della politica estera statunitense, diktat a cui Blinken ha obbedito a stretto giro mandando in soffitta la libertà religiosa.
Sì, Biden e signora Harris, più Biden e soci di governo, sono certamente dei campionissimi anche dell’aborto, ma la soppressione della vita umana innocente viene riletta nell’ottica della lotta strategica e campale contro la natura persino biologica della persona. Ed è un cambio di registro notevole. Non solo eliminare a piacimento il figlio in grembo, ma farlo come affermazione filosofica di una natura diversa.
Se essere femmina è un optional, se essere maschio è una semplice decisione, sopprimere o meno la vita che una mamma porta in seno, la quale mamma potrebbe pure sentirsi, o diventare, un giorno, uomo, è solo choice, scelta. La scelta a senso unico di distruggere la vita, “mero” dato biologico di una natura che va, se voglio, rifatta. Un piccolo nevo da asportare in day hospital, insomma.
Se io sono quel che voglio, se il corpo è mio e lo gestisco io, anche trasformarlo sessualmente, tagliando qui e aggiungendo là, piegandovi a questo pure la mia mente, costringendo persino il mio spirito, il bambino che porto in grembo è solo una delle tante voci da sistemare con il chirurgo adatto e un po’ di chimica, un lifting conseguente al mio status variabile e manipolabile di gender.
La bandiera LGBT+ sulle ambasciate è esattamente quello che una bandiera è: un vessillo, una divisa, una dichiarazione al mondo di intenti e di guerra. Gli Stati Uniti d’America dell’era Biden-Harris questo sono e questo vogliono dire al mondo di essere. Sovversione e distruzione, manipolazione e soffocamento, spersonalizzazione dell’uomo e soppressione degli innocenti. «Cultura di morte», cioè, come sempre. Rinunciare a issare sul pennone pubblico la bandiera del proprio Paese è, per una rappresentanza diplomatica, gravissimo.
L’ambasciata è oasi, no-fly zone, rifugio, in inglese – l’allure di questo false friend è struggente – sanctuary. Lì regnano sovrani e incontrastati i princìpi che ispirano un Paese, lì i bisognosi cercano riparo e trovano scampo. Issare l’arcobaleno strappato al Noè del dopo diluvio, l’arcobaleno che non indica più la pentola d’oro, issarlo al posto o accanto alla Stars and Stripes significa rinunciare all’identità che ha fatto gli Stati Uniti. Gli Stati Uniti sono, cioè, e vogliono essere il transgender che avanza. Han ragione di gongolare a Gay Times.
Alla faccia della democrazia, gli americani dovrebbero insomma sentirsi tutti rappresentati dall’arcobaleno invece che dalla bandiera nazionale. Uno nasce in un certo Paese senza che nessuno abbia chiesto il suo parere: può contrastare e combattere l’identità del Paese in cui è nato, può persino chiedere cittadinanza altrove, ma che si nasca sotto una bandiera è un dato naturale che l’uomo non può controllare. Imporre però ex abrupto una nuova identità è come una mattina, mi sono svegliato e ho trovato l’invasor.
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