Last updated on Febbraio 15th, 2021 at 08:29 am
Torno sulla bambina di appena dieci anni che, per una stupida sfida su Tik Tok, il gettonatissimo social dei piccoli e degli adolescenti, è morta soffocata. Ne hanno scritto tanti. Ma la cronaca non basta. No, la colpa non è dei social.
O meglio: il problema non è il compagno cattivo o l’adulto smaliziato che trae in inganno. La responsabilità è, infatti, di chi dovrebbe insegnare che questi strumenti sono mezzi e non fini, ma che invece per comodità lascia correre. La responsabilità è di chi ha abdicato al proprio ruolo e non dice più a questi bambini che il fine ultimo non è apparire, ma vivere. Che il fine ultimo non è farsi accettare, ma accettarsi. Che il fine ultimo non è creare un’immagine di sé, ma costruire un sé che sia degno della persona che ciascuno di noi è realmente ed è chiamato a essere: al diavolo le immagini patinate sui social.
I «no»
Il problema è che bambini e adolescenti sono stati lasciati soli di fronte a un mezzo che non è alla loro portata e spesso nemmeno alla portata degli adulti.
Forse questo articolo ripeterà cose dette migliaia di volte, anche da persone più autorevoli di chi scrive. Ma una cosa va fatta adesso. Chiamare genitori ed educatori a svolgere il ruolo che è loro. Gridare a gran voce che per educare bisogna esserci, che per educare è necessario guidare per mano, accompagnare. Per educare è necessario essere decisi, fermi e non avere paura, quando serve, a dire anche «no».
I «no che aiutano a crescere» – per riprendere un titolo famoso rivolto qualche anno fa agli educatori ‒ servirebbero in primis ai genitori che ormai non dicono «no» nemmeno più a se stessi. Che non sono in grado di dire a se stessi che, no, questa cosa ora non la puoi fare. No, questa cosa non è giusta. I genitori hanno smesso infatti di credere che esistano cose giuste e cose sbagliate, che ci sia il bene e che quindi ci sia anche il male, e che pertanto vada insegnato a distinguerli. La cultura attuale suggerisce che alla fine tutto sarebbe relativo e soprattutto che una cosa è buona nella misura in cui è semplicemente piacevole per me, qui e adesso.
L’illusione
Troppo spesso i genitori sono presi dalle proprie traiettorie autobiografiche in cui il posto che rimane per gli altri è più limitato, marginale. Il problema si pone in modo sommo quando quel posto residuale è quello dei figli. Genitore non è solo chi partorisce e chi alleva un bambino, ma anche e soprattutto chi lo educa, e per educare è necessario assumersi responsabilità. Responsabilità di adulto.
Ma dove sono finiti gli adulti responsabili? Dove sono gli adulti che, pur essendo umani e commettendo errori, hanno la lucidità di fare un passo indietro e dire «no»? No, questo social non lo puoi usare; no, il telefonino a 10 anni non serve. La responsabilità verso qualcuno che non sia se stesso implica, per essere esercitata, che lo sguardo si posi sull’altro. Che quello sguardo si alzi dallo schermo e fissi finalmente negli occhi l’altro accanto a noi che ci chiede di essere guidato, di essere sorretto, di essere accompagnato. È faticoso, sicuramente. Prende tempo, tanto. Soprattutto chiede agli adulti di mettere da parte il proprio io per preoccuparsi di persone indifese come solo un bambino può essere. E invece si finisce per concedere ai figli il sogno illusorio che il social sia fine e non mezzo.
Do ut des
Non demonizzo il mezzo, ma accuso noi genitori, tutti, di irresponsabilità. Non è la società, non sono i tempi che cambiano. Siamo noi, ciascuno di noi, che non ci vogliamo prendere più la responsabilità di educare e di guidare. Perché abbiamo paura: della fatica, ma anche del fallimento. In un mondo performativo qual è il nostro, lo sbaglio non è contemplato. E invece è proprio dal fallimento che si inizia a crescere assieme. Così funziona l’educazione. Perché il bisogno di educazione oggi non è solo per i bambini e per i ragazzi, ma soprattutto per i genitori.
Il termine educare viene dal latino educere, «trarre fuori». Quando si educa si sta tirando fuori dall’altro tutto quello che la personalità dell’altro cela, nel «trarre» dall’altro l’atto educativo regala anche qualcosa a chi sta traendo. Non esiste atto educativo che non sia tale anche per chi insegna. Non esiste docente che non possa raccontare di avere imparato qualcosa insegnando, magari pure da un disastro. Educare è un do ut des.
Autorità
La responsabilità, però, non basta. Sono necessari anche autorità e autorevolezza.
Il termine autorità deriva dal latino auctoritas, che a sua volta proviene da auctor, autore, e da augeo, «colui che fa accrescere». In questo termine tanto bistrattato dagli educatori filosessantottini si cela in realtà uno dei pilastri fondamentali dell’educazione, si dischiude il concetto di potenza che fa crescere e che fa aumentare. Non ha nulla a che vedere con l’imposizione, benché chi voglia coltivare debba stabilire regole e limiti.
È chiaramente più facile far finta di niente, chiudere un occhio dopo 10 ore di lavoro. Ma il bambino e l’adolescente hanno bisogno che qualcuno si interessi a loro, che li guardi, che li riprenda e che dica anche «no»: l’autorità pone come condizione un estremo atto di amore verso il bambino. E in questo atto d’amore l’io dell’adulto deve fare un passo indietro.
Autorevolezza
Ma all’autorità si deve associare anche l’autorevolezza, parola che ha lo stesso etimo ma che pure esprime un concetto diverso e complementare. Per esercitare l’autorità bisogna infatti essere credibili, cioè appunto autorevoli. L’autorevolezza emerge dallo stato morale e dalla condotta di una persona. L’autorevolezza non si guadagna con i titoli, ma con l’esempio: a bambini e adolescenti non interessano le nostre parole se non sono accompagnate dalle nostre azioni. Come sempre, sono le nostre azioni che seguono il nostro essere e ci definiscono come persone: agere sequitur esse, l’agire segue l’essere. Essere senza agire conformemente al mio essere, oltre che crearla nella mia persona, crea dissonanza anche in chi mi guarda. L’educazione deve dunque tornare a essere completa e totale per tutti.
E ora basta lacrime: torniamo a fare i genitori. Torniamo a educare. Torniamo a dire «no».
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