Last updated on Febbraio 6th, 2021 at 01:28 am
Da qualche giorno, in Sudan, la pratica delle mutilazioni genitali femminili (MGF) è stata dichiarata reato. Chi dovesse praticarla incorrerà nella pena di tre anni di carcere e in una multa.
Ma di che cosa si tratta? Il Parlamento Europeo definisce MGF le «procedure che comportano la rimozione parziale o totale dei genitali esterni femminili o altre lesioni ai genitali femminili per motivi non medici. Di solito vengono eseguite da un circoncisore tradizionale con una lama e senza anestetico».
Il riferimento è a pratiche rituali di tipo religioso o comunque culturali, diffuse su percentuali altissime della popolazione nell’Africa sub-sahariana e in Medioriente, più limitatamente in Asia e in America Latina. I fenomeni migratori, come immaginabile, fanno peraltro registrare casi fra le comunità di immigrati anche in Europa, negli Stati Uniti d’America e in Australia.
Le modalità di attuazione possono essere diverse, da rituali poco più che simbolici (dal punto di vista fisico, meno certo è che siano inoffensivi anche sul piano psicologico) alla rimozione del cappuccio clitorideo, sino all’infibulazione, che prevede la rimozione parziale o totale sia delle piccole sia delle grandi labbra e la cucitura della vagina, lasciando solo un piccolo foro per il passaggio dell’urina e del flusso mestruale.
Sono pratiche estremamente invasive, non prive di conseguenze per la salute fisica, sessuale e psichica delle donne che vi sono sottoposte, spesso bambine o poco più. Sovente, inoltre, le condizioni igieniche in cui tali “interventi” vengono eseguiti sono talmente tragiche che l’ipotesi della morte per dissanguamento o per infezioni non sono affatto remote.
Le motivazioni sono, come detto, culturali, prive di motivazioni mediche, sanitarie o terapeutiche, e risentono fortemente della pressione sociale, ancorata saldamente a ideali di bellezza e di purezza che si rifanno a un passato lontano.
A oggi si stima che siano dai 100 ai 140 milioni le donne nel mondo sottoposte a MGF e che le bambine che subiscono tali pratiche siano ogni anno circa 3 milioni. In Europa il loro numero si attesta intorno alle 600mila unità.
Il Parlamento Europeo sottolinea la pericolosità delle MGF e come afferma sul proprio sito Internet «ha ripetutamente dimostrato un forte impegno per aiutare ad eliminare questa pratica in tutto il mondo. […] ha raccomandato un’azione comune per sradicare la mutilazione genitale femminile. Mercoledì 12 febbraio 2020 i deputati hanno votato una nuova risoluzione per chiedere alla Commissione europea di includere azioni per porre fine alle pratiche di MGF nella nuova Strategia per la parità di genere dell’UE […]».
L’Organizzazione mondiale della sanità (OMS) considera le mutilazioni genitali femminili una violazione dei diritti umani e, fra i Paesi occidentali democratici, la Svezia è stata la prima a bandire tali pratiche, nel 1982, giudicandole punibili con dieci anni di carcere.
In Italia, dove il fenomeno è stato rilevato in comunità di persone originariamente provenienti soprattutto dall’Africa e dal Medioriente, la Legge n. 7 del 9 gennaio 2006 stabilisce la reclusione da 4 a 12 anni per chi pratichi mutilazioni genitali femminili, pena che però è aumentata di un terzo se la mutilazione viene compiuta su una minorenne, nonché in tutti i casi in cui venga eseguita per fini di lucro.
A fronte di politiche abortiste o volte al controllo neomalthusiano della natalità, spacciate sempre per misure di “salute riproduttiva e sessuale” della donna, decisioni come quella presa ora in Sudan, proprio in uno dei teatri di questa tragedia, fanno finalmente giustizia di quegli abusi semantici e concettuali che grondano sangue.
Commenti su questo articolo