Uteri artificiali per bambini fai-da-te

Si chiama «ectogenesi» ed è l’estremo tentativo di manipolare la natura umana

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Last updated on Febbraio 18th, 2020 at 02:00 am

Che l’ectogenesi e le nuove tecnologie siano un interesse primario in sede di ricerca e di pianificazione politica non è difficile da dedurre, se soltanto si prendessero in considerazione gli ingenti fondi e le risorse investiti negli ultimi anni. È recente la notizia che il Programma dell’Unione Europea, Horizon 2020, uno dei più generosi nell’ambito dei finanziamenti destinati a ricerca e innovazione, ha investito una cospicua parte degli 80 milioni di euro programmati per il periodo 2014-2020, circa 2,9, per sviluppare un prototipo funzionante di utero artificiale.

Obiettivo della ricerca affidata all’Università Tecnologica di Eindhoven, nei Paesi Bassi, è creare un utero artificiale in grado di accogliere i bambini nati prematuri prima della 22a settimana di gestazione, i cosiddetti “grandi prematuri”. La differenza del nuovo prototipo rispetto alle incubatrici già in uso negli ospedali, risiede nel fatto che il nuovo utero sarà in grado di riprodurre, similmente, un ambiente uterino materno, tanto che il bambino, attaccato a un cordone ombelicale meccanico, verrà immerso in una sorta di liquido amniotico, circondato da una placenta molto simile a quella vera, che permetterà al feto di vivere una esperienza parzialmente simile a quella dell’utero materno. Lo scopo dichiarato della ricerca in corso è quella di permettere anche ai grandi prematuri, quelli che cioè oggi non hanno una grande possibilità di sopravvivenza, di poter proseguire la gestazione e quindi venire alla luce. Ma è davvero tutto qui? Il dubbio sorge facilmente, se a questa prima notizia si aggiungono altri tasselli raggiunti in ambito accademico e di ricerca negli ultimi decenni.

Il «biobag» per prematuri

Ma, anzitutto, cos’è l’ectogenesi? Il termine, che deriva dalle parole greche ἐκτός, ektòs, «fuori», e genesis, γένεσις, «nascita», a quanto pare coniato nel 1924 dal genetista inglese John B.S. Haldane (1892-1964) ‒ ateo, marxista, tra l’altro noto come uno dei fondatori della cosiddetta «teoria sintetica» neoevoluzionista ‒, indica esattamente lo sviluppo, la crescita e la nascita di un essere vivente fuori dal corpo biologico femminile, sostituito invece da una macchina. Sebbene, fino a qualche anno fa, l’ectogenesi rientrasse ancora nelle ipotesi di ricerca tecnologica, dal 2000 in poi numerosi sono stati i passi in avanti compiuti, se si pensa che più team di ricerca sono stati in grado di portare avanti esperimenti concreti in questo senso. Nel 2002, per esempio, un gruppo di ricercatori del Weill Cornell Medical College di New York è riuscito a creare il primo utero umano artificiale, in cui un feto sopravvisse per ben sette giorni. Nel 2017 poi, al Children’s Hospital di Philadelphia, è stato messo a punto un utero artificiale detto «biobag» in cui sono stati fatti crescere alcuni agnellini prematuri, ottenendo buoni risultati e una gestazione artificiale di ben 107 giorni, grazie alla quale questi agnellini, nati prima della 23a settimana, hanno potuto crescere e nascere.

Tra gli studiosi e i ricercatori si tende a distinguere due pratiche di ectogenesi, una detta parziale, che si riferisce soprattutto all’uso di incubatrici e ad altre tecnologie avanzate che hanno lo scopo di salvare feti nati prematuramente e che sono già nella routine clinica della medicina prenatale, e una seconda detta piena, quella per così dire “totale”, che prevede il concepimento dell’embrione in vitro attraverso le diverse tecniche di fecondazione artificiale extracorporea disponibili e lo sviluppo dell’embrione, per la totalità della gestazione, in un utero artificiale. Questo secondo tipo di ectogenesi viene, ad oggi, solo in parte offerta dalle ricerche, ma appunto studi scientifici sperimentali stanno lavorando in questa direzione, ottenendo risultati.

La speranza di molti fra scienziati e finanziatori è che questi uteri artificiali possano alla fine permettere una gestazione completa, in cui i confini di prossimità con i donatori di gameti (per capirsi, madre e padre) siano annullati, non solo spazialmente, ma anche temporalmente. Spazialmente in quanto una coppia o un singolo, uomo o donna, potrebbe decidere di avere un figlio attraverso la fecondazione artificiale e l’uso di gameti non necessariamente propri, aspettando che il prodotto del concepimento (questo sì che si può chiamare «prodotto del concepimento», vista la logica economica e materialistica alla base di tale pratica) sia pronto. Ma anche temporalmente, poiché la gravidanza potrebbe avvenire in un momento in cui uno dei due partner o entrambi non sono più in vita.

Genitore non è più chi genera

Fantascienza, si dirà. Forse (a parte il fatto che c’è chi sta pensando di prelevare sperma da donatori morti). Ma intanto sono molte le studiose che in ambito accademico acclamano l’ectogenesi come la chiave di liberazione della donna. Secondo queste studiose, infatti, è giunto il momento di separare il concetto di donna dalla funzione femminile riproduttiva. In altri termini, il collegamento tra femminile e funzione riproduttiva è, sempre secondo queste studiose, un paradigma sociale e culturale, che, grazie alla tecnologia può essere finalmente superato, così da porre la donna nelle condizioni di vivere la propria vita in maniera del tutto libera dalle funzioni biologiche. Secondo questa corrente di pensiero, quindi, la biologia riproduttiva della donna, vista come un limite, dovrebbe essere rimossa al punto da permettere una riconcettualizzazione del termine «genitore» slegato dal genere.

È curioso pensare come queste esigenze accademiche di liberazione della donna, non abbiano nulla a che fare con le donne vere, quelle che affrontano invece la vita reale, quelle che, riconoscendo la maternità come un di più, e non certo un di meno della propria identità, chiedono a gran voce che venga loro riconosciuto, non una macchina sostitutiva alla gravidanza, ma azioni sociali e politiche di supporto alla maternità e all’infanzia, a partire da leggi che tutelino le madri lavoratrici, il periodo di maternità successivo al parto, la possibilità di usufruire di orari più flessibili e pure di strutture adeguate, agevolazioni e supporti per le famiglie, specie quelle numerose. Perché, per aiutare le donne, non si dovrebbe arrivare a negare loro la femminilità, ma valorizzarla e difenderla così che essa possa esprimersi sempre al meglio. Solo così le donne saranno davvero libere di scegliere cosa fare.

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