Sul coronavirus il governo ha passato il limite

Protestiamo per quanto deciso e quanto non deciso dal dPCM del 26 aprile

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Solo due cosette sul coronavirus all’indomani dei provvedimenti del governo italiano sulla cosiddetta «Fase 2», più un’appendice.

Uno. Coltivare uno snobismo virtuoso

La prima cosa è che il coronavirus non ci interessa. Non ci interessa l’informazione imbavagliata dalla mascherina, non ci interessano le statistiche della smentita e della conferma, non ci interessano i pareri degli esperti di tutto e di nulla, non ci interessano gli hashtag, la gente sui balconi, le bandiere, l’inno nazionale per le strade, la dabbenaggine. Francamente, «andrà tutto bene» ditelo a un altro.

La gente muore di continuo anche senza il nostro permesso, muore anche senza la retorica bolsa. Le malattie uccidono, e questa non è una grande novità. Le malattie uccidevano anche prima del coronavirus, continuano a uccidere anche durante questa pandemia, uccideranno pure dopo. Nello Yemen il colera dilaga, ma non fa notizia perché qualcuno ha deciso cosa debba fare notizia e cosa no. Ancora viviamo nel dubbio se sia nata prima la gallina dell’informazione che dà alla gente quel che la gente vuole sentirsi ripetere per esorcizzare il vuoto che ha dentro e attorno oppure l’uovo della gente che ripete solamente quanto un’informazione pilotata gli ammannisce spacciandola per libertà. Come che sia, il risultato è trash.

Quindi, mentre le malattie fanno il loro mestiere, che è quello di uccidere, il mondo sprofonda battendo le mani: aborto ed eutanasia non sono come prima, sono peggio di prima, ma tutti plaudono dai balconi perché anche stamattina nessuno starnuto. Lo abbiamo raccontato molte volte da queste colonne. I divorzi aumentano e le famiglie si sfasciano alla faccia del nostro “familismo” da decreto governativo di libertà vigilata.

Per questo “iFamNews” continuerà a ignorare l’agitarsi del mondo, coltivando quello snobismo virtuoso che impone alle nostre coscienze di ricordare quotidianamente, pur nel nostro piccolo, anzi infinitesimo, che all’abisso manca un passo, e che, se non freniamo a tavoletta consumandoci fino alle orecchie come Willy il Coyote, ci arriveremo diritti cantando Fratelli d’Italia e Bella ciao.

Due. Il diritto a levare la voce

La seconda cosa è che il coronavirus ci interessa. Ci interessa la salute delle persone, ci interessa la solidarietà, ci interessa la compassione, ci interessa la carità e non sopportiamo quelli che dicono che il coronavirus sia acqua fresca, che il mondo non cambierà, che tutto andrà bene. Noi crediamo nel Bene finale, anche se ci si arriva (pure) attraverso gradini di male.

Siamo infatti profondamente preoccupati per quanto sta accadendo. Nell’orizzonte funebre che ci strozza, l’elemento che troviamo francamente più inquietante è il governo presieduto da Giuseppe Conte, che non sai dove inizia lui e dove finisce uno dei mille meme che circolano a suo carico sui social. L’unica certezza del suo governo senza certezze è la serrata talebana del Paese.

La signora del pian terreno mi ha chiesto l’altro giorno dal giardino, beata lei, perché altri Paesi che hanno chiuso dopo di noi abbiano aperto prima di noi pur avendo avuto un numero talora record di morti. Delle due l’una: o sono più stupidi di noi o sono più intelligenti, la consolazione essendo che fra poche settimane avremo la riposta. Sarà però una consolazione davvero misera se la risposta sarà che sono più intelligenti di noi.

Nel frattempo l’Italia muore di ogni morte possibile. Un po’ è sottoterra per il virus, e in tempi di tregua capiremo bene com’è andata, magari pure se per caso qualcuno non portasse qualche responsabilità; un po’ stramazza di fame. Se è criminale chi esce a fare quattro passi, criminale è anche chi ripete che la salute viene prima dell’economia. Bisognerebbe domandare a quel tale come diamine pensa di pagarsi le mascherine. Ma forse la cultura del preservativo che ha improvvisamente preso possesso di tutti gli italiani sul balcone, come nel peggiore degli incubi de L’invasione degli ultracorpi, a partire da un buon numero di persone che, a diverso titolo e in diversi ambiti, ne sono o ne dovrebbero essere leader ed élite, è solo il dato che emerge alla fine di questo colossale stress test di ingegneria sociale. Adesso sappiamo che il punto di rottura della corda è molto più in là di quanto si immaginasse, che l’Italia non è un Paese per persone libere, che troppi sono disposti a barattare tutto il proprio regno per un antipiretico.

Paghi di chiamare salute il non starnutire sul telecomando, non ci rendiamo conto che la prima vittima dei persuasori mica nemmeno poi tanto occulti è la famiglia, la vittima sparita subito dai radar del nostro governo non appena è stato sparato il primo colpo di tosse d’importazione settimane fa. Inghiottita nel Triangolo delle Bermuda dei decreti, dei decretini e dei quod placuit principi habet vigorem legis a parlamento ibernato, la famiglia non è infatti il simulacro happy happy descritto nell’ennesimo servizio dei tiggì sull’eccezionale consumo domestico di farine per pani e dolci in stile notiziario social-agrario da Corea del Nord. La famiglia è la base dell’edificio sociale. Se non riapre la famiglia, il Paese resta chiuso dentro una cassa di zinco. Se si riaprono fabbriche e uffici, ma non si pensa prima alla famiglia, il castello implode. Ogni giorno, ora, minuto in più di chiusura del mondo del lavoro e di ingabbiamento della famiglia significa un avanzamento della necrosi lungo il corpo sociale dell’Italia. E gli aiuti alla famiglia non sono le mancette, ma tutto ciò che può (ri)stabilire la sovranità della famiglia, a partire dalla defiscalizzazione più ampia possibile e dal ripristino della capacità di decidere il bene concreto per sé. Non farlo significa pensare che gli italiani vadano tenuti sotto tutela perché incapaci di scegliere e di agire. In nome della libertà di informazione e in forza del diritto di critica, rivendico allora qui e ora la possibilità di levare la voce nel momento in cui, senza uno straccio di progetto sul domani ma anzitutto sull’oggi, il governo italiano persiste in misure di cosiddetto contenimento che hanno sempre più il sapore dell’illibertà.

Tre. Appuntamento in parrocchia con gli atei

Ciò detto, un’appendice. Anzi, un appello a tuti gli atei italiani. Protestate a fianco dei credenti per la libertà di culto, ancora una volta conculcata dal decreto del presidente del Consiglio dei ministri (dPCM) del 26 aprile, art. 1, co. 1, lett. i). Dopo aver ribadito che «l’apertura dei luoghi di culto è condizionata all’adozione di misure organizzative tali da evitare assembramenti di persone, tenendo conto delle dimensioni e delle caratteristiche dei luoghi, e tali da garantire ai frequentatori la possibilità di rispettare la distanza tra loro di almeno un metro», il dPCM conferma infatti la sospensione delle cerimonie religiose, con la sola esclusione di quelle funebri, ma a condizione vi partecipino non più di 15 “congiunti”, con mascherine e distanziati.

Ogni buon ateo, laico-laicista, che non si lasci fare la predica da nessuno, dovrebbe sobbalzare sulla sedia. Il provvedimento è contrario infatti alla libertà di culto che è espressione della libertà religiosa sancita dalla Costituzione italiana e con esso il presidente del Consiglio si arroga il diritto di discriminare fra tipologie di cerimonie religiose, decretando a suo giudizio unico e insindacabile che le cerimonie religiose sono meno importanti di altre attività o iniziative alle quali proprio lo stesso dPCM dà il via libera già dal 4 maggio. Gli atei dovrebbero inorridire gridando per le strade che una democrazia non funziona affatto così.

Mi verrebbe un’umile-ultima proposta. Ci vediamo domenica tutti in parrocchia alle 10:00 con labari religiosi e striscioni anticlericali?

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