Per capire meglio come si sia giunti all’attuale dibattito sull’eutanasia, che si è materializzato intorno alla discussione sulla legge sulla Morte volontaria medicalmente assistita, occorre ricostruire l’itinerario che da oltre 10 anni sta percorrendo una certa classe politico-culturale. Al centro del dibattito, ad avallare una posizione altrimenti non difendibile, c’è l’enfasi posta sul principio di autodeterminazione e sulla volontà individuale come regola pressoché esclusiva della propria condotta.
L’antefatto è rappresentato dalla vicenda di Eluana Englaro (1970-2009), a tutti ben nota. L’incipit del dibattito è comunque collegato alla consapevolezza che i pazienti non vadano lasciati soli davanti a situazioni che possono avere una propria drammaticità, oggettiva o soggettiva. Si volevano mettere le basi normative perché la perdita di autonomia, la solitudine, la sensazione di essere di peso per la propria famiglia o la stessa intensità del dolore, non diventassero mai per il paziente una ragione sufficiente per desiderare di morire. Si voleva accompagnare il paziente con una serie di cure particolari, le cure palliative, in una fase delicata della sua vita, mentre sperimenta una fragilità che lo consegna in modo significativo all’affetto e alla cura dei suoi familiari e di professionisti altamente qualificati, allontanando da lui il dolore, con tutte le terapie, farmacologiche e non farmacologiche, di cui si disponeva.
Nasce così la legge 38/2010, sulle Disposizioni per garantire l’accesso alle cure palliative e alla terapia del dolore, a cui segue nel 2017 la legge 219, Norme in materia di consenso informato e di disposizioni anticipate di trattamento. Due leggi strettamente collegate, ma con alcuni punti di frizione evidenti, che hanno decretato una sorta di conflittualità permanente, a cui la Corte costituzionale ha cercato di offrire una sua risposta e una sua sintesi.
Assicurare la cura individuale per il malato e per la sua famiglia
La legge 38/2010 aveva questo obiettivo specifico: «È tutelato e garantito l’accesso alle cure palliative e alla terapia del dolore da parte del malato […] nell’ambito dei livelli essenziali di assistenza […] al fine di assicurare il rispetto della dignità e dell’autonomia della persona umana, il bisogno di salute, l’equità nell’accesso all’assistenza, la qualità delle cure e la loro appropriatezza riguardo alle specifiche esigenze».
In particolare la legge prevedeva che le strutture sanitarie che erogavano cure palliative e terapia del dolore assicurassero un programma di cura individuale per il malato e per la sua famiglia, nel rispetto di alcuni principi fondamentali:
- tutelare la dignità e l’autonomia del malato, senza alcuna discriminazione;
- tutelare e promuovere la qualità della vita fino al suo termine;
- sostenere adeguatamente sul piano sanitario e socioassistenziale la persona malata e la sua famiglia.
Il diritto a conoscere le proprie condizioni di salute
Mentre obiettivo prioritario della legge 219/17 era sottolineare il diritto di ogni persona a «conoscere le proprie condizioni di salute ed essere informata in modo completo, aggiornato e a lei comprensibile riguardo alla diagnosi, alla prognosi, ai benefici e ai rischi degli accertamenti diagnostici e dei trattamenti sanitari indicati, nonché riguardo alle possibili alternative e alle conseguenze dell’eventuale rifiuto del trattamento sanitario e dell’accertamento diagnostico o della rinuncia ai medesimi».
Secondo la legge solo in questo modo è possibile prendere autonomamente le decisioni essenziali in merito alla propria vita e alla propria salute. Per garantire il paziente da possibili modifiche o manipolazioni del suo consenso questo deve essere scritto, specifico, semplice, chiaro e completo. Nell’esercizio della libertà del paziente la legge include la possibilità che il paziente possa rifiutare trattamenti salvavita e perfino l’idratazione e la nutrizione medicalmente assistite, aprendo di fatto la porta a quella che una volta veniva definita eutanasia passiva. E su questa possibilità, già contenuta nella legge 219, ha fatto leva la Corte costituzionale per chiedere al parlamento di intervenire e di legiferare anche in merito all’articolo 580 del Codice penale, in materia di suicidio assistito.
Medici ridotti a stenografi notarili
È evidente il cambiamento, l’evoluzione culturale che marca il passaggio tra le due leggi. In entrambe lo scenario è offerto da quella fase della vita in cui il paziente, sperimentando una nuova fragilità, matura la consapevolezza che, in quel momento, per lui non ci sono nuovi farmaci disponibili a risolvere in via definitiva la sua malattia. Percepisce l’irreversibilità della sua malattia e in lui può affacciarsi la tentazione del suicidio.
Il medico, d’altra parte, secondo la legge 219/2017, potrà fare solo ciò che egli decide, con un approccio di tipo notarile: è buono tutto ciò che il malato chiede, e le sue richieste non possono essere disattese.
Tra la legge 38, tutta costruita intorno alla relazione di cura nei confronti del paziente, per cui questi a casa o in hospice non dovrebbe mai sentirsi solo, e la legge 219, in cui il paziente ha il diritto di decidere da sé ciò che vuole, compresa la rinuncia a qualunque tipo di trattamento, c’è un gap fortissimo.
Se le cure palliative si adattano come un guanto alla condizione del malato mano a mano che la sua condizione muta e la terapia del dolore può spingersi sempre più avanti per mitigare la sua sofferenza, l’enfasi posta sulla autonomia del paziente, depotenzia la relazione medico-paziente, perché riconosce al primo solo il dovere di attenersi alle direttive del paziente, e al secondo il diritto di dettare la linea in conformità con la legge sul consenso informato e sulle disposizioni anticipate di trattamento.
Il paziente decide di morire
È facilmente comprensibile quindi che il terzo step di questo itinerario sia quello previsto dalla legge sulla Morte volontaria medicalmente assistita. Il paziente decide di morire perché la sua condizione gli appare irreversibile, per di più accompagnata da forti dolori, e quindi chiede e pretende dal medico un suicidio senza dolore e senza sofferenza.
Quella relazione tra medico e paziente, che include peraltro anche i familiari del secondo, e che rappresenta il cuore della legge 38, è stata sterilizzata dalla legge 219. In questa legge la solidarietà, l’empatia, la condivisione tra medico e paziente sono poste decisamente in secondo piano rispetto all’autonomia e al mito di una volontà assoluta con cui il paziente autodetermina ciò che vuole, anche sotto il profilo penale, perché il medico non può sottrarsi alle sue richieste.
Era quindi facile prevedere che si sarebbe potuti giungere al terzo ddl della serie, approvato alla Camera e attualmente in discussione in Senato, Morte volontaria medicalmente assistita. La legge attualmente in studio in Senato ha come obiettivo centrale quello di soddisfare la richiesta di «suicidio assistito» ‒ vera e propria forma di eutanasia ‒, quando sembra che tutte le cure, comprese quelle palliative, non siano più in grado di offrire risposte soddisfacenti per una qualità di vita, che appare decisamente insopportabile.
Vale la pena sottolineare che la legge non usa mai il termine «eutanasia», come se questa parola potesse evocare una sorta di rifiuto e di riprovazione morale.
L’autodeterminazione a morire
Le vicende che hanno condotto il parlamento a prendere in esame questa richiesta drammatica sono ben note e riguardano casi come quello di Fabiano Antoniani (1977-2017), il dj divenuto tetraplegico dopo un grave incidente d’auto, che Marco Cappato aveva accompagnato a morire in Svizzera.
Cappato, al ritorno, si era autoaccusato di reato per essersi spinto oltre quanto previsto dall’articolo 580 del Codice penale, che tuttora proibisce il «suicidio assistito». La vicenda venne sottoposta alla Corte costituzionale, che emise una sentenza, la 242 del 2019, in cui da un lato depenalizzava il «suicidio assistito» in determinate circostanze, ma dall’altro raccomandava il ricorso alle cure palliative, facendone quasi una conditio sine qua non.
La sentenza, come è noto, non aboliva l’articolo del Codice, me ne riduceva i margini di applicazione, alla luce della legge 219 del 2017 sulle DAT, per parziali conflitti di natura costituzionale. La sentenza in buona sostanza sottolineava che, se al malato tutto è possibile, in virtù del principio di autodeterminazione, e nulla poteva essergli negato, non si capiva perché gli si dovesse impedire di farsi aiutare nel momento in cui decideva di morire.
La Corte evidenziava come il parlamento avesse fatto una legge, senza valutarne fino in fondo tutte le implicazioni e sollecitava il parlamento stesso a completare il proprio lavoro. La legge 219/17, intensamente voluta da Partito Democratico e Movimento Cinque Stelle, sfruttava l’ambiguità della formulazione proprio per approdare pochi anni dopo a una legge come quella sulla Morte volontaria medicalmente assistita. La legge sulle DAT insiste sul principio di autodeterminazione del paziente, senza tener affatto conto dei profondi condizionamenti interiori, dettati dal dolore e dalla sofferenza, e di quelli esteriori, in cui il paziente teme di essere di peso e paventa il rischio dell’abbandono e della solitudine.
Equivoci. Grandi, enormi
La richiesta suicidaria è trattata infatti supponendo che il soggetto sia perfettamente libero e la complessità emotiva dei suoi sentimenti, delle sue paure e delle sue illusioni sia, comunque, sotto controllo. È il grande equivoco della richiesta di eutanasia, che nelle intenzioni dei proponenti dell’attuale ddl rappresenta un atto di libertà perfetta, mentre tutti conosciamo quanti e quali siano i condizionamenti a cui sono esposte le persone in determinate condizioni e circostanze di dolore e perdita di autonomia.
C’è un’evidente conflittualità sul piano razionale ed emotivo nell’ipotesi di un soggetto che può chiedere volontariamente di morire, facendo perno sul suo diritto all’autodeterminazione, e la sua incapacità di farlo da solo che gli ripropone immediatamente il bisogno di un rapporto umano, di una relazione che vorrebbe essere di solidarietà, anche se appare distorta nelle motivazioni e nella prassi esecutiva.
L’altro grande equivoco di quanti sostengono la legittimità di questo ddl è che davvero il dolore, fisico e spirituale, sia diventato un compagno insopportabile che non si riesce a controllare in alcun modo.
È necessario superare questa convinzione. In questi ultimi anni sono state acquisite conoscenze precise sui meccanismi fisiologici che governano il dolore e sono molteplici le metodologie di intervento che permettono di controllarlo. Il dolore è un segnale di allarme utile per la comprensione della malattia, non una condizione ineluttabile. Attualmente disponiamo di una vasta gamma di farmaci che permettono di controllare il dolore, dai più leggeri ai più potenti; sono farmaci sicuri che includono gli oppioidi, in particolare la morfina. Se assunti correttamente, sotto controllo medico, sono eccellenti analgesici, e la loro assunzione non abbrevia la vita e non altera lo stato di coscienza. Ma quest’ultima legge non ha come obiettivo aiutare il paziente a vivere, intende solo garantire che la volontà di morte del paziente sia rispettata e chi lo aiuterà non subirà alcuna conseguenza negativa.
La morte cercata e facilitata dal Sistema sanitario nazionale
La nuova legge, infatti, si sforza di definire una sorta di protocollo che garantisce il medico rassicurandolo sul fatto che per lui non ci saranno conseguenze negative. Non parla affatto di prevenzione del suicidio; non richiede a medici e caregiver di essere supportivi, attivi, empatici e consapevoli, di prestare attenzione ad eventuali segnali di pericolo.
Come si è detto più volte, il quadro di riferimento della nuova legge sulla Morte volontaria medicalmente assistita non è il tempo proprio del fine vita, ma la condizione clinica irreversibile. Basterebbe la genericità di questa espressione per mostrare come si tratti di una prateria enorme, in cui ci sono patologie che ancora conosciamo poco e male, per esempio le malattie rare, comprese quelle che non hanno ancora neppure nome; quelle per cui mancano farmaci ad hoc.
L’eutanasia, che si tratti sia di «suicidio assistito» sia di «omicidio del consenziente», mettendo fine alla vita del paziente, non risolve alcun problema: semplicemente uccide intenzionalmente una persona tramite la somministrazione di farmaci letali.
Dal punto di vista biopolitico e biogiuridico, oltre che bioetico, vale la pena sottolineare come la legge 38 sia ancora troppo poco applicata, nonostante gli infiniti effetti positivi che ha avuto, che ha e che potrà avere in un futuro; della seconda, la legge 219/2017, si sa che attualmente a 5 anni dalla approvazione della legge i famosi testamenti biologici sono davvero pochissimi; mentre la terza legge è una apertura diretta alla morte, cercata, voluta e facilitata dallo stesso Sistema sanitario nazionale, che smette di curare per porre fine alla vita dei pazienti.
La battaglia sulla eutanasia appartiene a un filone di pensiero che ha fatto della libertà un assoluto, ignorando la complessità dei fattori che condizionano la nostra stessa volontà di vivere. Proprio per questo è urgente dare vita a una intensa azione di prevenzione del suicidio nei casi in cui il rischio appare prossimo e concreto.