San Martino, un piccolo ristoro prima del Generale Inverno

La bellezza della famiglia attraverso storie, apologhi, aneddoti e spunti che oggi «Nostradomus» raccoglie per seminare un domani migliore

L’11 novembre cade la festività di san Martino. Nato intorno al 316 d.C. a Sabaria Sicca, oggi Ungheria e allora periferia dell’Impero, figlio di un tribuno militare romano e destinato anch’egli alle armi, venne inviato in Gallia e per lungo tempo fu di stanza ad Amiens. Durante una ronda, in una notte gelida, soccorse un mendicante donandogli metà del proprio mantello, per scoprire poi in sogno, la notte successiva, che il mendicante cui aveva offerto aiuto e calore era in realtà il Cristo.

Si convertì al cristianesimo la Pasqua seguente e si dedicò poi alla vita religiosa, sino a divenire vescovo, a Tours, dove fu sepolto dopo la morte avvenuta a Candes-Saint-Martin nel 397.

Patrono fra le tante attribuzioni anche degli osti, dei vendemmiatori e dei viticoltori, oltre che curiosamente delle oche, la figura di san Martino ha dato vita nel tempo a numerose tradizioni, che come spesso accade in Italia si traducono in usanze di tipo culinario.

Un esempio fra tutti è quello del biscotto di san Martino, un dolce friabile di pastafrolla originario di Venezia e diffuso poi in tutto il Veneto, con le sembianze del Santo a cavallo armato di spada e guarnizioni di glassa e confetti, che si gusta nella zona in questo periodo.

San Martino è protagonista anche di un modo di dire un tempo diffuso nelle campagne. Poiché in autunno si concludeva l’annata agraria e scadevano i contratti di locazione dei poderi, talvolta mezzadri e locatari dovevano traslocare, trasferirsi in un altro fondo, sotto un altro “padrone”. «Fare san Martino», si diceva, andare via, lasciare la casa che si era conosciuta come propria e ripartire da capo, in un altro posto. Caricate le masserizie, i genitori anziani, la moglie e i bambini piccoli sul carro, se c’era, i più grandi seguivano a piedi, ci si incamminava spesso nella nebbia verso un altro luogo, in un destino analogo di fatica. Chiunque abbia visto la pellicola L’albero degli zoccoli, del regista Ermanno Olmi, ha in mente questa scena struggente.

L’estate di san Martino, quando «ogni mosto diventa vino», dura tre giorni e quindi per quest’anno si conclude proprio oggi. Si tratta di un periodo indicato simbolicamente ma che spesso anche nella realtà, a metà dell’autunno, concede giornate tiepide e miti, soleggiate e asciutte, quasi a prendere una rincorsa di luce e calore per affrontare poi il lungo, a suo modo riposante, buio invernale.

È curioso il richiamo a un’espressione tipica degli Stati Uniti d’America, pare originaria della Pennsylvania settecentesca e diffusa poi in tutto il mondo anglosassone, cioè quella della Indian summer, l’estate indiana, analogamente a quanto avviene alle nostre latitudini un periodo mite e piacevole prima dei rigori invernali, rallegrato in alcuni Stati dal fenomeno meraviglioso del foliage, in cui i boschi si riempiono delle sfumature autunnali delle foglie degli alberi.

Pare che l’espressione derivi dall’abitudine delle tribù dei nativi americani di interrompere in questo periodo dell’anno guerre, battaglie e incursioni, per dedicarsi complice il bel tempo e il relativo tepore alle provviste per l’inverno, spesso assai rigido nelle loro zone, e alla sistemazione degli accampamenti.

Con un parallelismo ancora più sorprendente, anche per i nativi americani questi pochi giorni d’autunno erano dedicati a un trasferimento: approfittando del bel tempo autunnale, abbandonavano le rive dei fiumi e dei laghi, pescose in estate, per spostarsi con le loro canoe cariche di masserizie verso i territori di caccia nell’interno delle foreste dove trascorrevano il periodo invernale.

Per tutti quindi una breve sosta, un piccolo ristoro, prima di affrontare l’inverno con rinnovate energie.

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