Viviamo nell’equivoco da qualche secolo e l’equivoco è che libertà significhi fare quel che si vuole. Non è vero. Libertà vuol dire fare ciò che si deve: fare ciò che è doveroso fare perché è giusto e buono. Fare quel che è sbagliato, infatti, non è libertà: è un errore.
L’ambito religioso è il primo in cui si esercita la libertà non di fare ciò che si vuole ma ciò che si deve. Tale è perché la libertà in ambito religioso è il primo dei diritti umani politici: non è solo la libertà interiore di credere, ma immediatamente anche la libertà di vivere pubblicamente i contenuti della fede. Ed è il primo perché se Dio esiste o non esiste, tutto cambia: da quella libertà derivano cioè tutte le altre.
La libertà religiosa non è la libertà di fare della religione un polpettone, un abito da mettere e dismettere, un pot-pourri di quel che passa il convento. La libertà religiosa non è l’idea egualitaria, livellatrice e massificante secondo cui tutte le fedi sono indistinte, grigie, scontornate. Occupandomi di libertà religiosa, non ho mai incontrato alcun credente che ritenga la propria religione una fra le tante. Tutti sono convinti che la propria sia la fede vera. Del resto la libertà religiosa non è quel che gli uomini pensano di Dio, ma il diritto di Dio a essere adorato dall’uomo nella verità.
La libertà religiosa è infatti il diritto alla verità di cui per natura gode insindacabilmente ogni essere umano. È il diritto a credere che la verità esista, il diritto a credere nella verità, il diritto a credere che la verità sia comunicabile, trasmissibile e insegnabile, il diritto a credere che la verità sia superiore alla menzogna. L’uomo gode questa libertà primaria contro ogni coercizione e dunque deve avere anche il diritto di cambiare religione, qualora credendo nella verità si accorgesse di avere commesso un errore. Perché ciò che la libertà religiosa non è, è il diritto all’errore. Gli uomini sbagliano, ma non hanno il diritto di istituire l’errore a contro-verità. Si sbaglia, ma non si ha il diritto di postulare l’errore.
Se esistesse un diritto all’errore, non esisterebbe certezza alcuna in alcun ambito dell’umano. Immaginiamo un diritto a sbagliare nello scrivere leggi per la convivenza umana: immaginiamo che chi scrive una legge lo faccia dicendo convinto che una certa legge sarebbe buona uguale anche se fosse sbagliata. Crollerebbe il diritto. Chi scrive una legge lo fa pensando sia buona o migliore di altre. Sbaglierà, ma il suo errore è un dato di fatto, non un principio assoluto. Se si istituisse il diritto all’errore come contro-verità, l’universo verrebbe travolto dal caos. Si pensi alle leggi fisiche e matematiche che descrivono e governano l’universo: se l’errore valesse come la verità, il mondo imploderebbe adesso risucchiato all’indietro in una contro-singolarità istantanea.
Il diritto alla verità non è nemmeno la ricerca della verità. Ho sempre alzato gli occhi al cielo davanti alla postura di chi, letto il Siddharta di Herman Hesse, s’incammina trasognato per Katmandu, qualche doccia in meno e la coreografia pronta per il genio di Francesco Gabbani, vedasi Occidentali’s Karma. Da una vita combatto chi non sa leggere e ripete che nella Dichiarazione d’indipendenza degli Stati Uniti d’America sarebbe contemplato il diritto alla felicità (e quelli che leggono ancora meno di chi non sa leggere e dice quella corbelleria sta invece nella Costituzione federale). In quel documento americano, infatti, detta cosa non c’è: viene infatti scritto che Dio ha donato agli esseri umani determinati diritti derivanti dalla natura con cui li ha fatti e che fra questi il primo è il diritto alla vita, il secondo la libertà che deriva dall’essere vivi e di cui l’uomo non fa quel che gli pare esattamente per il motivo che il terzo di quei diritti è il perseguimento della felicità. Cioè la sua costruzione concreta, la libertà servendo per edificare storicamente un po’ di felicità.
Il 20 dicembre 2013 Éloïse Bouton, militante del movimento «Femen» per i “diritti” di aborto e LGBT+, classe 1983, entrò nell’église de la Madeleine, a Parigi, a seno nudo, il corpo istoriato di slogan, sul capo un velo azzurro e una parodia della corona di spine. Mimando una crocefissione con le braccia aperte, in corrispondenza del tabernacolo impersonò una improbabile Madonna che abortisce Gesù, emblematizzato da due pezzi di fegato di manzo. Finì urinando sui gradini dell’altare. Sul petto la Bouton portava scritto «344ème salope», dove «salope» significa «zoccola», in riferimento al manifesto pubblicato nel 1971 da 343 donne francesi, in realtà 342, non una di meno, che dichiararono di avere abortito per invocare la legalizzazione di quel “diritto”. Sulla schiena si leggeva «Christmas is canceled»: niente nascita, dato che Gesù era stato abortito.
Il 17 dicembre 2014 la legge francese condannò (un mese di carcere, sospensione dello stesso e ammenda di €2000) la Bouton per «esibizione sessuale», in base all’art. 222-32 del Codice penale francese che punisce chi mostri in pubblico parti sessuali del corpo senza motivo. La Corte d’appello ha confermato, ma la Bouton ha contestato la violazione dell’art. 10 della Convenzione europea dei Diritti dell’Uomo che tutela la libertà di espressione e ora la Corte Europa dei Diritti dell’Uomo (CEDU) condanna la Francia a risarcire la Bouton.
La CEDU pensa cioè che tutelare la bestemmia sia tutelare della libertà di espressione. Non sa nemmeno di cosa parla. Forse lo capirà quando un’altra Bouton invece che in una chiesa urinerà in Allée des Droits de l’Homme a Strasburgo.