Anzitutto, chiariamo una cosa. La proposta di legge Zan non sanziona gli atti di violenza o di minaccia motivati da ragioni legate al sesso per la semplice ragione che questi reati sono già puniti – e già severamente – dal Codice penale italiano. I responsabili dei recenti fatti di cronaca – agitati per sostenere l’urgenza dell’approvazione delle norme che si vorrebbero contro la cosiddetta «omo/transfobia»– o si trovano in carcere o sono denunciati all’autorità giudiziaria.
Che cosa, allora, si vorrebbe punire, stando al «Ddl Zan», con la reclusione anche fino a sei anni (con tutto quel che ne consegue, in termini di possibilità di ricorrere a intercettazioni e misure cautelari)? La propaganda, ovvero l’istigazione a commettere. O, ancora, la commissione di atti di discriminazione.
Adesso intendiamoci. Discriminare non è sempre cosa riprovevole. Si pensi alle lavoratrici madri, beneficiarie di condizioni di lavoro diverse da quelle dei colleghi maschi. Questa è una discriminazione. Ed è virtuosa, opportuna, necessaria.
Quando, allora, è ingiusto discriminare? Quando si trattano in modo diverso situazioni uguali: emblematico è il caso del colore della pelle. È di immediata evidenza la disumanità di un comportamento del genere, rubricato opportunamente sotto il marchio infamante di «razzismo».
Orbene, la legge Mancino – che l’on. Alessandro Zan del Partito Democratico vorrebbe ora utilizzare per scopi propri – è servita proprio a questo: a sanzionare chi induce ad avere o ha condotte razzistiche, oppure a trattare diversamente le persone sulla base di differenze connesse all’etnia, alla razza e alla religione.
E qui si arriva però al cuore della questione. Qual è la discriminazione che si vuol punire? È quella di trattare in modo diverso situazioni ritenute diverse per ragioni fondate «sul sesso, sul genere, sull’orientamento sessuale o sull’identità di genere».
Ora, a prescindere dalla difficoltà – denunciata pure da autorevoli costituzionalisti, nonché dal Comitato per la legislazione della Camera dei Deputati – di definire cosa sia l’«identità di genere» (cosa non di poco conto per un precetto penale), è evidente che quella che viene criminalizzata è una intera visione dell’uomo, che così viene subdolamente parificata ad altre concezioni, queste sì palesemente criminali.
Il genitore, l’educatore, il giurista, il pastore che vorranno trasmettere al prossimo – persino con la pretesa lecita e legittima di convincerlo – l’idea che il matrimonio presupponga la differenza dei sessi, che la famiglia sia solo quella fondata su quel matrimonio, che i bambini abbiano bisogno di una mamma e di un papà, discrimineranno – secondo la proposta di legge Zan – in modo ingiusto, e andranno trattati alla stregua del Ku Klux Klan.
Il messaggio di fondo è, insomma, che vi sono idee che non possono essere manifestate per la semplice ragione che non possono essere pensate. E che chi le pensa, è un “odiatore” e va trattato come un criminale: carcere e rieducazione.
Quali sono le conseguenze sulla famiglia? Almeno di tre livelli.
Sul piano ordinamentale, verrà meno ogni ostacolo per l’adozione e per la fecondazione artificiale anche in favore di coppie dello stesso sesso, né vi sarà ragione per impedire l’utero in affitto. Anzi, chi si opporrà, rivelerà di essere affetto da un’«omofobia» interiorizzata, pur se omosessuale o femminista.
In ambito sociale, poi, la famiglia sarà non più solo un ambiente criminogeno, ma verrà considerata come una realtà criminale, se si ostinerà a voler perpetuare quel modello, spacciandolo come normale.
Sotto un profilo culturale, infine, viene messa fuori gioco la stessa antropologia che fonda la famiglia: l’uomo viene ridotto a una monade prigioniera dei propri desideri senza corpo. Non c’è spazio per le relazioni, non c’è apertura al reale. Perché, allora, la battaglia per impedire l’approvazione del «Ddl Zan» va assolutamente combattuta? Perché è in gioco quel che resta dell’uomo e della sua dignità. Perché è minacciata la libertà, senza la quale non si può ricostruire una civiltà.