Last updated on Agosto 24th, 2021 at 02:34 pm
È trascorso poco più di un anno dall’approvazione della legge che depenalizza l’aborto in Nuova Zelanda, una delle leggi più estreme del mondo, voluta con gran forza dal primo ministro, Jacinda Arden. Come previsto dalla nuova norma, ora in Nuova Zelanda l’aborto è disponibile «su richiesta» fino alla ventesima settimana di gestazione, mentre per le settimane successive – e fino al momento stesso della nascita – basta la semplice dichiarazione di un medico che attesti come «l’aborto sia appropriato alle circostanze», tenendo conto delle condizioni fisiche e mentali della madre stessa, per porre fine alla vita del feto al fine di favorire il «benessere» della madre.
Le possibili conseguenze drammatiche di una simile legislazione erano già state portate alla ribalta, a partire dalla dichiarazione della dottoressa Catherine Hallagan, secondo la quale «l’ambito del benessere […] è così ampio che praticamente ogni richiesta potrebbe essere accettabile». Nel tentativo di arginare tale deriva, il parlamentare Simon O’Connor aveva presentato un emendamento che prevedeva l’obbligo di cure per i bambini nati vivi in seguito a un aborto fallito. L’emendamento è stato rigettato da parte di più dei due terzi dei parlamentari neozelandesi, Arden in testa.
Un aumento del 43% degli aborti tardivi
Tocca fare i conti, ora, con le conseguenze della nuova legge: anzitutto negli ultimi dodici mesi in Nuova Zelanda si è registrato un aumento del 43% degli aborti “tardivi”, cioè quelli eseguiti dopo la ventesima settimana di gravidanza. Ricordiamo a chiunque non l’avesse presente che un feto di venti settimane è lungo circa 15 centimetri e pesa quasi 300 grammi. Una donna incinta a questo punto della gestazione può avvertire già i movimenti del feto, mentre il bambino sta già sviluppando olfatto, udito, vista e tatto. Intanto «il sistema nervoso sta formando quelle giunzioni complesse che sono necessarie per la memoria e il pensiero». Tutti gli organi e le strutture del corpo del bambino sono al termine della loro formazione, il piccolo «sta entrando in un periodo di semplice crescita». Inoltre, informazione abbastanza significativa, a venti settimane di gestazione le vie del dolore sono già formate.
In Nuova Zelanda nel 2020 almeno 120 bambini sono stati abortiti oltre la ventesima settimana; uno di questi riguarda il cosiddetto “aborto” operato su un bambino che si trovava oltre la 35esima settimana di gravidanza. Si ricordi che oltre la 37esima settimana il parto viene considerato “a termine” – e chi scrive ne ha diretta esperienza, avendo partorito un figlio perfettamente sano tre settimane prima del termine previsto.
Infanticidio di fatto
Mentre Richard Scott William, il “bambino più prematuro del mondo”, nato a 21 settimane e due giorni di gestazione, con un peso di 340 grammi, festeggiava il suo primo compleanno, lo scorso 5 giugno, altri bambini come lui si sono trovati fuori dal grembo materno, non già per un malaugurato accidente di natura, ma per un preciso intento perseguito medicalmente. E almeno uno, proprio come Richard, è nato vivo, nonostante la prematurità così avanzata. Mentre i medici dell’ospedale di Minneapolis che hanno accolto la nascita prematura di Richard hanno tentato il tutto per tutto, e con successo, per soccorrere la creaturina, riuscendo dopo sei mesi di dura lotta a permettergli di tornare a casa tra le braccia di mamma e papà, altri medici hanno agito diversamente.
In Nuova Zelanda, infatti, non esiste obbligo di soccorso per i feti abortiti prematuramente, per questo un bambino nato vivo dopo un aborto tardivo senza successo è stato lasciato agonizzare senza assistenza medica per due ore, prima di morire. A riportare gli eventi, una studentessa di medicina che si è trovata suo malgrado ad assistere all’evento. «Normalmente un aborto tardivo viene eseguito su bambini che hanno problemi di salute, ma questo bambino era completamene sano, quindi invece di usare una iniezione infanticida per fermare il battito del cuore prima di espellere il bambino dall’utero, la madre è stata semplicemente indotta» racconta Nicola – nome di fantasia per l’operatrice. «Non lo faremmo mai agli animali. È stato orribile» continua il racconto, con un rilievo drammaticamente vero, se pensiamo che in Germania è addirittura proibita l’uccisione degli embrioni di pollo dopo 6 giorni di incubazione, visto il dolore che i suddetti embrioni parrebbero soffrire.
Agli esseri umani, invece, è dato morire di asfissia, dopo esser stati strappati dal ventre materno, una morte definita «triste» dagli altri operatori coinvolti, ma giustificata dai «problemi economici ed abitativi» della madre, una donna che – grazie alla legge fortemente voluta dal primo ministro – è stata lasciata “libera” di far soffrire e morire suo figlio in mezzo a tanto strazio. Quel che il suo Paese ha fatto per lei, ricordiamolo, in difficoltà economiche e abitative, non è stato sostenere le sue difficoltà, aiutare i limiti o venire incontro alle debolezze, ma piuttosto – vero faro di civiltà e modernità – per citare ancora Nicola «porre fine alla vita del suo bambino in modo estenuante e crudele. In realtà è vile e disgustoso che qualsiasi essere umano venga trattato in quel modo». Non ci appare chiaro a chi dovrebbe essere grata questa donna che, comunque, «quando ha lasciato l’ospedale aveva ancora bisogno di sostegno e aiuto per la sua situazione». Con un ulteriore fardello: la consapevolezza che il frutto del suo ventre è stato abbandonato inerme e sofferente – solo – fino all’ultimo respiro.
Nessuna sorpresa: era tutto prevedibile
Come sottolinea la portavoce di Right to Life UK, Catherine Robinson, «questo caso è davvero tragico, ma del tutto prevedibile. La nuova legge sull’aborto della Nuova Zelanda è barbara e quei parlamentari che hanno votato contro l’emendamento che richiede cure mediche per i bambini nati vivi dopo un aborto fallito – come Jacinda Arden – sono una vergogna, e dovrebbero vergognarsi». L’emendamento, considerato “non necessario” si fondava invece sulla consapevolezza che in altre giurisdizioni i bambini venivano lasciati morire dopo aborti falliti, laddove non fossero legalmente richieste le cure mediche in casi del genere.