Lo spettro dello spread. Demografico

Non si sa più come dirlo, ma bisogna ridirlo perché nessuno ascolta. Occorre rimettere la famiglia al centro, al più presto, sennò il Paese crolla

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Discorso pronunciato, da esterno, il 30 aprile a Milano come conributo alla conferenza programmatica di Fratelli d’Italia. L’autore precisa che intervento è frutto di riflessione comune nell’ambito del Centro Studi Rosario Livatino e in particolare del contributo del prof Francesco Farri.

1. Una decina di anni fa una parola inglese turbava il quadro economico e politico italiano, fino a far cadere un governo (in concorso con altri fattori). È la parola spread: che indica, come sappiamo, il divario fra il rendimento dei titoli del debito pubblico italiano e il rendimento dei titoli del debito pubblico tedesco. Lo spread è assai variabile, ha tante concause, e quando ricompare all’orizzonte, nei tg e sulle pagine dei giornali, fa sempre nuovamente correre un brivido sulla schiena

C’è però un altro spread, che preoccupa di meno, di rado presente sui media, ma che in Italia ha assunto carattere cronico ed effetti più pesanti: è il divario annuale fra le nascite e le morti, che nel 2021 ha superato le 300.000 unità, 709.000 morti contro 399.000 nuovi nati. È come se ogni anno scomparisse l’equivalente di una città come Bari o come Catania. Sembra lontanissimo il 2006, ultimo anno in cui si andò in pari, con circa 560.000 nascite e altrettanti decessi: in appena 15 anni l’abbattimento demografico è stato del 30%; il 1964, con 1.035.000 nascite, è il paleolitico. Il 1964 è stato anche l’anno del boom economico, e ‒ come lo spread dei titoli di Stato si correla alle crisi politiche ‒ lo spread demografico va messo in relazione con la crisi, politica, economica, finanziaria, nella quale siamo immersi.

È un dato obiettivo: non ha futuro una nazione il cui indice di natalità è di 1,25 figli per donna in età fertile, e il cui indice di vecchiaia (cioè il rapporto fra >65 anni e <15 anni) è di 182,6; che vuol dire 182 anziani ogni 100 giovani. Non ha futuro per considerazioni non ideali, bensì semplicemente economiche: alla riduzione delle nascite corrisponde a breve una contrazione di giovani che lavorano, e quindi una riduzione delle entrate contributive e fiscali; al parallelo incremento della popolazione anziana corrisponde un aumento dei costi sanitari e di assistenza per soggetti che non producono. L’eutanasia, oggi rivendicata come scelta di libertà, sarà strumento di controllo della spesa pubblica; e con essa l’aumento dell’età pensionabile e l’individuazione di criteri per la selezione dei pazienti cui concedere le cure, soprattutto a quelle più costose, mente le famiglie in povertà assoluta in Italia sono arrivate al 7,5%, per un numero di individui pari a circa 5,6 milioni.

2. Con questi dati qualsiasi governante di buon senso adotterebbe delle misure urgenti per il rilancio della famiglia: non per ragioni di principio, ma per esigenze di bilancio. La famiglia continua a essere oggi il principale agente di welfare diffuso, e al tempo stesso il meno oneroso: quanto costa un mese di presenza di un neonato in un asilo nido e quanto costa se, potendolo fare, ci pensano i nonni? Qual è la spesa mensile per un anziano non autosufficiente in un hospice, e quanto spende una famiglia nello stesso periodo se riesce a tenerlo al proprio interno? Se vogliamo uscire dai giochi di parole, il primo provvedimento dovrebbe riguardare i criteri di redazione del bilancio pubblico: questo risparmio andrebbe quantificato. Ai fini del calcolo degli equilibri di bilancio, andrebbero valorizzate poste virtuali corrispondenti al risparmio di spesa pubblica che la famiglia permette di operare, secondo il principio di sussidiarietà orizzontale: con le necessarie conseguenze in termini di minore carico fiscale su quella famiglia.

Ascoltiamo di frequente altisonanti richiami alla nostra Costituzione: la quale, più che essere brandita come arma impropria contro l’avversario politico, andrebbe letta, e magari applicata. Articolo 31: «La Repubblica agevola con misure economiche e altre provvidenze la formazione della famiglia e l’adempimento dei compiti relativi, con particolare riguardo alle famiglie numerose». È un pour parler o è qualcosa da attuare? Se la risposta corretta è la seconda, significa che la Costituzione richiede da un lato di agevolare la formazione della famiglia, e dall’altro di favorire l’adempimento dei suoi compiti. Le misure di sostegno economico degli ultimi decenni, quando hanno riguardato la famiglia, si sono concentrate esclusivamente sul versante dell’adempimento dei suoi compiti, con particolare riguardo alla filiazione, ma hanno trascurato totalmente la prima parte della disposizione, ossia la necessità di agevolare la formazione della famiglia. E così siamo giunti al minimo di 179mila matrimoni celebrati nel 2021, a fronte dei 420mila del 1970; perfino nel 1942 erano stati più di 200mila: oggi in Italia ci si sposa di meno che in tempo di guerra, quando centinaia di migliaia di uomini erano lontani da casa!

3. Ma pure sulla filiazione le misure adottate finora hanno lasciato a desiderare, perché frammentate, di respiro corto, spot più che investimenti: se si intende favorire la scelta di una coppia di mettere al mondo un figlio, le si deve dare una prospettiva di sostegni stabili, non di aiuti una tantum, siano bonus o assegni per la natalità. L’attuale Governo ha spiegato di aver voluto con l’assegno unico universale mettere ordine nella congerie di assegni pre-esistenti: peccato che ha deciso di parametrarne l’importo all’ISEE. La scala di equivalenza su cui si fonda l’ISEE è una delle più penalizzanti a livello europeo per le famiglie con figli: per cui da subito l’assegno unico universale va sganciato dal parametro dell’ISEE, in attesa della necessaria complessiva rielaborazione di questo indicatore. Sul piano sostanziale il nuovo sistema, oltre che inutilmente complicato ‒ otto pagine di tabella per quantificare l’entità dell’assegno, con scaglioni di ISEE differenziati di 100 euro in 100 euro ‒ , lascia a desiderare, poiché l’entità dell’assegno è ridotta e, in alcuni casi, addirittura inferiore a quanto sarebbe spettato secondo il sistema delle detrazioni per figli a carico, precedentemente previste nell’ambito dell’IRPEF. Quindi come minimo andrebbe data alle famiglie la possibilità di rinunciare al sistema dell’assegno unico per continuare a utilizzare le detrazioni dall’IRPEF per figli a carico.

Ma è l’insieme che va rivisto, ponendo la famiglia e i figli realmente al centro degli interventi, oltre i confini dell’assegno unico e delle detrazioni:

4. Non vado oltre nelle proposte concrete. Rinvio per tutte all’ottima proposta di legge che vede come prima firmataria l’on Giorgia Meloni (AC 2266), rilanciata al Senato dalla sen. Isabella Rauti (AS 1837): quel che è veramente necessario ‒ quale elemento unificatore dei singoli concreti provvedimenti ‒ è un cambio di prospettiva che ruoti attorno alla famiglia. Quando si intende davvero incentivare un settore, i benefici che si introducono prescindono dal reddito: accade per le ristrutturazioni edilizie come per l’acquisto di una vettura. La logica è di rimettere in movimento un pezzo di economia nazionale, e quindi per esempio favorire la domanda di automobili, non di aiutare persone in difficoltà economiche a comprare un veicolo: è per questo che gli incentivi auto prescindono dalle fasce di reddito. Il cambio di passo che si impone è seguire la medesima logica per le provvidenze in favore della famiglia: il dato rilevante è sposarsi e aprirsi alla vita, non modulare gli aiuti in base ai CUD!

Quel che serve veramente è ridare alla famiglia la centralità che le spetta per natura, e che le è riconosciuta dalla Costituzione. Volutamente non ho parlato dell’attacco portato in modo continuativo e sistematico all’istituto familiare negli ultimi decenni: un po’ perché è importante guardare in termini positivi al futuro, un po’ per non ripetere sempre le stesse lamentazioni. Mi limito però a ricordare:

5. Ci sono stati dei momenti nella nostra storia di italiani nei quali tutto sembrava perso, e pareva perduta anche la speranza. Sono stati momenti di lutto, di fame, di paura, con eserciti stranieri sul nostro territorio, e con i capi che erano scomparsi o si erano dati alla fuga: pensiamo al periodo conclusivo della Seconda guerra mondiale. In quei momenti il popolo italiano ha saputo prendere in mano il proprio destino e passare in pochi anni dalle macerie alla ricostruzione. È riuscito a farlo perché era un popolo sano, costituito da famiglie. Erano le famiglie dei nostri nonni, dai quali abbiamo tutti ascoltati i racconti del passaggio dalla disperazione a una prospettiva di luce, fondata sul lavoro, sulla fatica e sulla fiducia nel domani!

È perché venivano da famiglie sane che quelle donne e quegli uomini si sono rimboccate le maniche e hanno costruito nuovamente abitazioni, luoghi di lavoro, chiese, comunità, senza avere grandi mezzi a disposizione; perché erano anni in cui, come cantava il ragazzo della via Gluck, per lavarsi bisognava scendere “giù nel cortile”. Quella rete si è strappata, oggi è più precaria, ma non è scomparsa, come si è visto nel tempo della pandemia, dove è grazie a essa che il sistema ha potuto reggere: è fatta di quelle madri e di quei padri che ogni mattina accompagnano i figli a scuola, si recano al lavoro, lottano contro l’oppressione fiscale e affrontano ogni tipo di burocrazia, sopportano tutto e vanno avanti lo stesso.

E fanno andare avanti un’Italia che sta in piedi solo perché ci sono loro. Queste famiglie non ambiscono a essere surrogate; desiderano non essere ostacolate, e magari essere incoraggiate, soprattutto nelle scelte di investimento nel futuro. Non chiedono nulla più che condividere in concreto la speranza di un domani per il nostro popolo.

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