Ovvio che se dici che oggi c’è confusione su cosa sia un diritto dell’uomo e cosa non lo sia affatto, e che se, oltre a dirlo, crei pure una Commissione di Stato composta da esperti che abbia il potere di farlo, susciti un vespaio enorme.
Il nostro, infatti, è il mondo dei diritti acquisiti, ed è per questo che nei parlamenti del mondo ci sono minoranze di piromani che spingono per alzare a ogni costo l’asticella del salto funambolico: perché una volta raggiunto un obiettivo sulla spinta di emergenze che non esistono, è tana liberi tutti, non si torna più indietro. E così, contra scientiam, i caratteri acquisiti diventano ereditari.
Ma che addirittura vi siano leader religiosi che si lamentano perché la libertà religiosa viene messa in cima ai criteri guida della politica estera di un Paese è davvero paradossale, ancorché esplicativo del mondo (alla deriva) in cui viviamo.
Vita
L’argomento è ovviamente la Commissione sui diritti inalienabili voluta e varata dal Segretario di Stato degli Stati Uniti d’America, Mike Pompeo, con il compito di mondare il giardino dalla gramigna.
Il punto centrale diventa allora decidere quali siano i diritti dell’uomo davvero inalienabili, anche se di per sé, sul piano teoretico, farlo non è affatto difficile.
Sono infatti quelli derivanti dalla natura umana. Anzitutto, ovviamente, il diritto alla vita, perché i diritti inalienabili si possono predicare soltanto di soggetti vivi. Ma non un diritto alla vita astratto, bensì il diritto alla vita della persona umana così come essa è fatta sul piano morale, spirituale e anche fisico. O forse si vorrebbe pretendere che il diritto alla vita comprenda anche la modifica della biologia? Ci auguriamo di no, perché altrimenti l’idea di «rigenerare» il prossimo cara a una pletora di figuri, dall’abbé Baptiste-Henri Grégoire (1750-1831) ad Adolf Hitler (1889-1945), non avrebbe argini.
Libertà
Poi la libertà, che è la conditio sine qua non della vita: se uno è vivo, ma non può vivere, la sua esistenza è orbata di una dimensione imprescindibile. Anche la libertà, però, non è un concetto illuministicamente astratto, bensì storicamente e persino sociologicamente concretissimo. Ecco perché la libertà è per uno scopo: prima dimensione della libertà è dunque la libertà religiosa, che è pure il primo diritto politico della persona. Infatti la libertà religiosa garantisce alla persona la possibilità di impostare, regolare e regolamentare il rapporto sociale fondativo, quello che definisce l’esistenza per eccellenza: il rapporto, cioè, con l’interlocutore più importante di tutti, il Creatore. Da come la persona è libera di impostare e di gestire questo rapporto originario dipende appunto il resto, e questo, paradossalmente, sia che si decida per Dio o contro Dio. Ne derivano direttamente le altre libertà: di pensiero, di espressione, di riunione, di educazione, conseguenze concrete del godimento della possibilità di impostare il rapporto originario con Dio.
Politica
Ora, siccome la libertà religiosa non è soltanto il vivere o meno la fede come scelta solo del foro interiore, bensì la possibilità di vivere esplicitamente in base a essa (ai suoi dogmi, alla sua morale, ai suoi costumi, alla sua tradizione, e così via), la libertà religiosa configura il primo diritto anche politico della persona. E la natura politica di quel diritto di base qualifica come politica anche la libertà di pensiero, espressione, riunione ed educazione che da esso derivano. Tutto questo, come la la Dichiarazione d’indipendenza degli Stati Uniti citata da Pompeo esplicita, si riassume nel diritto a perseguire la felicità, ovvero nell’essere lasciati liberi di vivere e di organizzare la propria esistenza aristotelicamente secondo una politica adatta alla natura umana (ergo non tutte le forme e le vie politiche lo sono) per il bene superiore e supremo.
Adesso la fatidica Commissione statunitense farà il proprio lavoro con cura, ma di fatto il novero dei diritti inalienabili qui si ferma. Diritto inalienabile della persona umana è quanto rientra in questa sfera circoscritta, non qualsiasi desiderio o voglia una maggioranza parlamentare riesca a trasformare in norma giuridica.
Paure
Stante così la cosa, credo sia esagerato il timore espresso dal pregevolissimo C-Fam secondo il quale la Commissione voluta da Pompeo sarebbe ambigua in tema di aborto. Ne capisco il senso, ne apprezzo lo sforzo e ne condivido le preoccupazioni, ma ritengo che qui non sia il caso. Le paure si annidano nella frase «I sottoscritti commissari, come i nostri concittadini americani, non hanno le stesse opinioni su molti temi il cui statuto di diritti umani conosce interpretazioni conflittuali: aborto, affirmative action e pena capitale per non citarne che alcuni» (laddove l’affirmative action è la «discriminazione positiva», sic, vigente negli Stati Uniti per promuovere politicamente persone ritenute sottorappresentate per ragioni etniche o sessuali, per intenderci la quota gay nei film o i neri fra le genti del Nord ne Lo Hobbit).
Ora, quella constatazione è vera, e non inficia affatto il costrutto di partenza. Che gli statunitensi abbiano idee diverse su quegli argomenti è non solo vero, ma evidentissimo, motivo per cui è stata appunto istituita la Commissione. Se non vi fossero opinioni diverse, la Commissione non sarebbe stata istituita. Ma ciò significa che non tutti pensano tutto uguale su cose diverse come aborto, affirmative action e pena capitale: il fronte abortista, per esempio, è variegato per quanto riguarda la pena di morte. Ma qui sta il punto: il diritto alla vita del nascituro è un diritto inalienabile della persona, mentre la pena di morte una misura giuridica che, per quanto controversa sia e persino esecranda possa essere, è ammessa dal codice morale persino di diverse religioni, al di là che essa sia consigliabile o praticabile oggi, religioni che invece escludono categoricamente l’aborto. Per esempio il cristianesimo.
Inimica vis
I contestatori odierni della Commissione voluta da Pompeo non vogliono però, come invece C-Fam vuole, che la contrarietà all’aborto venga rimarcata ancora più nettamente ed espressamente, bensì l’esatto contrario. Vogliono che l’aborto venga inserito fra i diritti inalienabili dell’uomo. E altri gruppi, che spesso sono però gli stessi, che così sia pure per il “matrimonio” omosessuale.
Ora, la possibilità di contestare pubblicamente la teoria del gender e quindi per esempio i “matrimoni” omosessuali, l’adozione di bambini da parte di coppie omosessuali o la cosiddetta «maternità surrogata» imbocca sovente, anche nell’agone giuridico-politico, la strada della libertà religiosa.
Vietare tali critiche configura, cioè, una violazione della libertà religiosa. Attenzione al trabocchetto. Non perché quei temi siano di natura confessionale (sono infatti materia di diritto naturale), ma perché il diritto alla libertà religiosa, essendo il diritto politico di pensare e di agire in base a come si è regolato il rapporto sociale primario dell’esistenza dell’uomo, cioè quello che ha attinenza con Dio (pro o contro), è quello in capo al quale finisce l’argomento gender e derivati. Di più: siccome la libertà religiosa partorisce la libertà di pensiero, espressione, educazione e socializzazione, ovvio che rientri nel suo campo ogni questione relativa al gender.
La libertà religiosa, cioè, da un lato è il meno confessionale di tutti i diritti umani, dall’altro è la casa comune dove trova difesa la natura dell’uomo aggredita dal relativismo nichilista dell’aborto e del gender, qualunque sia il nome che l’uomo dà a Dio.
Quando quindi ci si scaglia contro chi pone la libertà religiosa al primo posto delle priorità addirittura dei rapporti fra gli Stati, ovvero come criterio della pace e della prosperità nel mondo, si mira a negare all’uomo tutto il costrutto sin qui descritto. Ed è gravissimo. Anzitutto perché così si cerca di attribuire all’uomo una contraffatta natura fluida dove persino la negazione della sua biologia e del suo diritto essenziale a esistere vengono spacciate per un bene; in secondo luogo perché a farlo sono dei capi religiosi, significa che anche la religione è stata aggredita dalla sua inimica vis.
Libertofobi
Del resto chi ha spinto 30 leader religiosi a una mossa tanto assurda quanto maldestra come contestare pubblicamente l’ottima politica del Segretario Pompeo è il Center for American Progress, il think tank orgogliosamente liberal che si riempie la bocca di «diritti riproduttivi» e che è stato fondato nel 2003 a Washington da John Podesta, legatissimo al clan Clinton e a Barack Obama, con i quali ha pure servito ai vertici dello staff della Casa Bianca, per poi dirigere, nel 2016, la campagna elettorale di Hillary Clinton, tutti noti non certo per essere dei difensori del diritto alla vita o dei critici dell’ideologia gender. Scappa da ridere, ma c’è gente che pensa che la libertà religiosa sia un brutto criterio per impostare le relazioni estere. Forse preferiscono i Paesi dove la gente viene aggredita, incarcerata ingiustamente, torturata e pure uccisa per ciò in cui crede e pensa. Libertofobi.