Last updated on Luglio 8th, 2021 at 05:54 am
Alla modica cifra di 30mila euro ci si può portare a casa un bambino sano, senza gli scompensi ormonali e le noie della gravidanza, saltando perfino le doglie. Lo produce una signora di minimo 21 anni e massimo 45, che può essere anche tua sorella o tua zia, senza poter escludere a priori nemmeno la propria mamma, se il requisito anagrafico lo consente. A meno che la gestante decida, per motivi propri, di esercitare il “diritto” all’aborto e mandare a pallino il progetto genitoriale pure sopprimendo il nascituro. La contraente non è infatti tenuta a discutere con nessuno la scelta di recedere dall’accordo, salvo intascarsi una parte di quanto pattuito.
Per alcune donne prestare il proprio apparato riproduttivo potrebbe rivelarsi una nuova professione. Basta iscriversi all’albo delle fattrici, previsto come «Registro nazionale delle gestanti» all’articolo 8 di una recente proposta di legge, depositata il 13 aprile 2021 alla Camera dei deputati da nove parlamentari della repubblica: Guia Termini, Doriana Sarli, Elisa Siragusa (Gruppo misto, ex Movimento Cinque Stelle), Riccardo Magi (Azione/+Europa/Radicali italiani), Nicola Fratoianni (Liberi e Uguali), Andrea Frailis (Partito Democratico), Stefania Mammì, Leonardo Salvatore Penna ed Enrica Segneri (M5S). Il testo mira sin dal titolo a introdurre una «disciplina» in materia di «gravidanza solidale e altruistica».
Che poi l’articolo punti nella direzione contraria, cioè all’abolizione del divieto di affittare l’utero, rappresenta solo l’ennesimo episodio della guerra terminologica, durante la quale l’interruzione volontaria della gravidanza, da «sterminio legale degli esseri concepiti e non ancora nati» – come scrive papa san Giovanni Paolo II (1920-2005) nel libro Memoria e identità. Conversazioni a cavallo dei millenni, pubblicato con una prefazione dell’allora cardinale Joseph Ratzinger dalla milanese Rizzoli nel 2011 – si è trasformata in tutela della maternità con la Legge 194 del 1978, mentre l’istituzionalizzazione del rapporto omosessuale dopo la legge 76 del 2016 prende ormai il nome di «unione civile» e, secondo l’auspicio di alcuni, si tradurrà in sanzione penale per chi dissentirà dalla definizione ufficiale, giudicandola incivile.
Nel caso attuale l’idea guida è la “maternità umanitaria”, messa a disposizione dei più svantaggiati. Si tratta però di ben altro, come si evince da una considerazione attenta di quanto non è esplicitato all’interno delle “definizioni” contenute nell’articolo 1. Al comma c) si intende come «genitore singolo o coppia: il soggetto singolo o la coppia in possesso dei requisiti di cui all’articolo 3, comma 1, che stipula un accordo di gravidanza solidale e altruistica, impegnandosi ad assumere la piena custodia e responsabilità dei nati a partire dal trasferimento in utero dell’embrione acquisendo la responsabilità genitoriale». Il profilo corrisponde a persone «maggiorenni e in età potenzialmente fertile e viventi», siano esse «singole o in coppia, coniugate, conviventi o unite civilmente, che non possano condurre una gravidanza o portarla a termine per ragioni medico-fisiologiche o per situazioni personali, di carattere psicologico o sociali, oggettivamente valutabili». Che nella categoria rientrino le persone omosessuali, benché non sia indicato chiaramente, è evidente non solo dal riferimento alle cosiddette «unioni civili», ma si precisa meglio nella descrizione delle cause naturali che impediscono loro di avere figli, cioè, come recita l’introduzione alla proposta: si considera infertilità “sociale” ogni ostacolo che ponga «nell’impossibilità di procreare non dovuta a cause fisiologiche, ma a condizioni esterne (assenza di partner, partner non fertile, partner dello stesso sesso)».
Grande assente, benché coinvolto proprio malgrado, è il non nato. Nel mercanteggiamento, che richiede anche obbligatoriamente l’intervento di avvocati, assicuratori, istituti di credito, medici, sanitari e professionisti della fecondazione in vitro, non si dice nulla della selezione genetica dell’embrione, che consente di scartare tutti i candidati alla nascita se le loro caratteristiche non corrispondono ai desideri di chi li ha prenotati. È fin troppo facile immaginare che quelli biondi e con gli occhi azzurri siano destinati al successo, come in un laboratorio degli orrori nazionalsocialista, e che quelli affetti da sindrome di Down finiscano per essere sbrigativamente eliminati, visto che già cadono vittime del “controllo di qualità” non appena viene individuata in provetta la presenza nel loro patrimonio genetico della Trisomia 21. Tacendo dell’esistenza del surplus di blastocisti, si può comodamente evitare la consapevolezza di quanti ne siano congelati, quanti soppressi nel procedimento, negando loro così ogni status giuridico.
Del resto, l’articolo 5 stabilisce al comma 6: «Resta, comunque, fermo il diritto della gestante ad accedere all’interruzione volontaria di gravidanza, ai sensi della legge 22 maggio 1978, n. 194, nel caso in cui la stessa accusi circostanze per le quali la prosecuzione della gravidanza e il parto comporterebbero un serio pericolo per la sua salute fisica o psichica». E qui di fatto si introduce l’aborto come diritto, assoluta novità giuridica nel panorama legislativo italiano: indicato in questa forma all’interno di un testo di legge entrerebbe surrettiziamente nel novero delle facoltà irrinunciabili.
La finalità principale della norma così come viene presentata, tuttavia, appare quella di sfuggire al business miliardario che prospera grazie alla «gestazione per altri», come si preferisce chiamarla in Francia per non offendere chi pratica il noleggio della pancia. In realtà si prevede, all’articolo 7 comma 2, che «la stipulazione di un accordo di gravidanza solidale e altruistica, anche se effettuata all’estero e a fini commerciali, è lecita». Tuttavia, l’articolo 5, inteso a regolare «Forme ed effetti dell’accordo di gravidanza solidale e altruistica e tutele», al comma 8 spiega che «sono poste a carico del genitore singolo o della coppia le spese sanitarie dirette e le spese indirette sostenute dalla gestante a causa della gestazione fino a sei mesi successivi al parto, il cui importo è stabilito nell’accordo tenendo conto dell’impegno fisico ed emotivo sostenuto dalla gestante nel corso della gravidanza e della perdita della capacità reddituale della stessa a partire dal periodo che precede la gestazione, nel corso della stessa e successivamente al parto, compreso il periodo di astensione obbligatoria dal lavoro previsto dalla legislazione vigente».
Il calcolo è parametrato in base al reddito della gestante, richiamato dall’art. 4, comma 3, e che «deve essere almeno pari al doppio del reddito previsto dagli articoli 76, commi 1, 2 e 3, e 77 del testo unico delle disposizioni legislative regolamentari in materia di spese di giustizia». In cifre si tratta di 23.493, 36 euro l’anno, circa 1.957 euro al mese. Se corrisposto per 15 mensilità, comprensive di nove mesi di gestazione più sei successivi al parto, si ha un totale di 29.366 euro, più le fatture relative a farmaci, cure, vestiario, cibo, soggiorni, ricoveri e spostamenti. Un affare, insomma, anche se ripetibile soltanto due o tre volte. E invece lo esaltano come se fosse una specie di soccorso verso i sofferenti.