Samantha D’Incà, trent’anni, di Belluno. A causa di un’infezione contratta in conseguenza di un incidente domestico e del successivo collasso polmonare, si trovava da 14 mesi in stato vegetativo irreversibile, e sabato mattina è morta. «Si è spenta senza soffrire, come una candela», dice la mamma.
La sua storia tragica e la battaglia legale intrapresa del padre per appellarsi alla Legge 219/2017, la normativa che regolamenta le disposizioni anticipate di trattamento (DAT), potrebbero prestarsi facilmente a interpretazioni ingannevoli o a strumentalizzazioni faziose.
«iFamNews» ne parla con Emmanuele Di Leo, presidente di «Steadfast», per chiarire i punti salienti della vicenda.
Che cosa è successo, dottor di Leo, negli ultimi giorni di vita di Samantha?
Venerdì 11 marzo i medici hanno riscontrato un «crollo molto forte» delle sue condizioni. Il lunedì seguente si è dato inizio della procedura di sospensione della PEG, cioè l’alimentazione con il sondino divenuta ormai inutile dato che il fisico non assorbiva più i nutrienti. Tra mercoledì e giovedì vi è stato un ulteriore aggravamento delle condizioni della ragazza, sottoposta infine a sedazione profonda.
Un esempio chiaro, dopo mesi in cui invece la situazione era stata completamente diversa, di accanimento terapeutico. Anche su questo vale la pena di riportare la reazione della mamma, che spiega che «medici e infermieri delle cure palliative venivano anche tre volte al giorno a vederla, sono stati molto bravi, nell’ultimo periodo soffriva e per questo le è stata fatta la sedazione profonda».
Che cosa invece “non torna”, nella narrazione fatta da alcuni media?
Come Steadfast, da sempre in prima linea per la tutela della vita, anche della più sofferente, troviamo inqualificabili le aperture di telegiornali e quotidiani che parlano di «procedura o cura di fine vita» praticata a Samantha. L’intento è quello di instillare nelle persone l’abitudine a considerare l’eutanasia come una procedura accettabile, eticamente valida.
La procedura di sedazione profonda è una cosa completamente diversa, prevista dai protocolli di cure palliative, e viene effettuata nel rispetto totale della dignità del paziente, al quale vengono evitate sofferenze molto gravi in imminenza di morte.
Evidentemente, è lontano anni luce dall’eutanasia…
Non è assolutamente ciò che chiede chi propone l’eutanasia come rimedio per accorciare la vita di chi, pur nella sofferenza, può avere ancora speranza e affetti da godere.
La legge sulle DAT ha inserito l’idratazione e la nutrizione fra i trattamenti che un paziente può rifiutare, ecco perché i promotori della “morte a comando” sfruttano la storia di Samantha per fare proselitismo. Samantha invece, inconsapevolmente, è proprio la testimonial di quello che diciamo da sempre: la vita, quando deve finire finisce, nessuno deve allungarla così come nessuno deve accorciarla.
Vuole spiegare meglio la questione che attiene a nutrizione e idratazione?
Nutrizione e idratazione sono sostegni indispensabili alla vita, non terapie mediche, fondamentali ovviamente alla persona sana quanto all’ammalato, indipendentemente dal mezzo con cui vengono somministrati. La loro interruzione conduce alla morte tra sofferenze atroci, ecco perché qualcuno propone una unica puntura letale, che invece è sempre e solo configurabile come eutanasia, che sia passiva oppure attiva.
Invece, ma solo nei casi in cui il corpo non ne tragga più giovamento, e si entri nel regime di accanimento terapeutico, si fa ricorso alla sedazione profonda, ossia alla somministrazione anticipata di antidolorifici in dosi progressive, fino a che il corpo si spenga da solo.
La famiglia, però, pareva pensarla diversamente.
La famiglia si è appellata affinché le venissero staccati i sostegni vitali, dicendo che così avrebbe voluto Samantha. In tempi non sospetti, la ragazza avrebbe detto che se le fosse successo qualcosa non avrebbe voluto venisse praticato su di lei accanimento terapeutico, però senza formalizzarlo secondo la normativa vigente.
I genitori quindi si sono appellati alla Legge 219/2017, quella sulle dichiarazioni anticipate di trattamento, per far valere questa richiesta. Il Comitato bioetico dell’ospedale di Feltre dove Samantha era ricoverata si è espresso in maniera contraria alla richiesta della famiglia, ritenendo che non vi fossero le condizioni per interrompere nutrizione e idratazione, dato che Samantha non era in imminenza di morte.
Poi, che cosa è successo?
Il papà, Giorgio D’Incà, ha avviato una lunga battaglia legale, fino ad ottenere dal Tribunale di Belluno, il 10 novembre 2021, l’incarico di amministratore di sostegno. Dopo il peggioramento critico di venerdì scorso, a seguito del quale le condizioni di Samantha sono mutate e la PEG non era più necessaria né auspicabile, ma anzi configurava davvero un’azione di accanimento, è lui che ha dato l’autorizzazione alla procedura di distacco.
Però bisogna chiarire che si tratta di normale prassi clinica, in situazioni di estremo peggioramento del paziente, tale per cui la morte è comunque imminente. Non configura assolutamente una procedura di eutanasia. È importante sottolinearlo e sgombrare il campo da ipotesi che sono faziose e strumentalizzano la sofferenza di una persona malata e della sua famiglia.