L’immoralità di Joe Biden

Pur di blindare l’aborto, potrebbe cambiare relativisticamente le regole del gioco a partita in corso

La Corte Suprema federale di Washington

La Corte Suprema federale di Washington

Ho appena scritto della protervia filoabortista di Joe Biden. C’è già del nuovo. In realtà è una vecchia idea di ritorno. Di fronte alla possibilità che la Corte Suprema federale degli Stati Uniti d’America possa finalmente avere tra le mani un caso che, senza forzatura alcuna, possa aprire l’iter potenzialmente in grado di ribaltare il precedente giuridico del 1973 su cui si fonderebbe la non illegalità dell’aborto americano il popolo dell’aborto, capeggiato dal presidente Biden, dal vicepresidente (e presidente del Senato) Kamala Harris e dal presidente della Camera dei deputati Nancy Pelosi, potrebbe (ri)pensare a sottrarsi all’agone truccando le carte.

L’idea sarebbe quella di negarsi allo scontro diretto utilizzando uno stratagemma in grado di neutralizzare gli effetti che l’orientamento conservatore della maggioranza degli attuali giudici della Corte Suprema federale può produrre.

Il modo per farlo è aumentare il numero dei giudici della Corte Suprema fino a che l’attuale maggioranza diventi minoranza. Introdurre in quell’assise più giudici, insomma, che relativizzino il dato assoluto attuale per un’offensiva rotondamente relativistica.

Peraltro la legge permette di farlo. I giudici della Corte Suprema federale sono nominati dal presidente federale e confermati (o bocciati ) dal Committee on the Judiciary del Senato, informalmente detto «Senate Judiciary Committee». Dopo di che servono a vita, a meno che non si dimettano (per motivi seri, di solito di salute). Attualmente il loro numero è nove, di cui uno serve come presidente. Il numero dispari evita che si possano verificare stalli che paralizzino i giudizi, ma quel numero, nove, non è intoccabile.

La Costituzione federale che istituisce la Corte Suprema federale non fissa infatti il numero dei giudici che la compongono. Quello è compito del Congresso federale, che ha il potere quindi di aggiungerne e di sottrarne. Nel corso della storia si è toccato un minimo di 5 e un massimo di 10. Quest’ultimo numero pari non ha del resto scandalizzato in un’epoca culturalmente più omogenea (o forse solo meno disomogenea) in cui morale, etica e deontologia significavano ancora qualcosa e nessuno si sognava, nemmeno per sbaglio, che un giudice della Corte Suprema potesse rinunciare ai dettami della coscienza, della professionalità e della legge per ideologia e partigianeria.

Ma il mondo è cambiato e per la giacchetta viene tirato tutto. Per questo il numero di nove giudici è invariato dal 1869, soprattutto in virtù del suo essere dispari.

Dunque il Congresso federale, oggi a maggioranza Democratica, ha di per sé il potere di aumentare il numero dei giudici, ma il motivo per cui se lo facesse si macchierebbe non è scritto nella Costituzione. Non lo è perché è superiore alla Costituzione. La morale, infatti, alberga nel cuore delle persone, non sui pezzi di carta. Proporre un ampliamento del numero dei giudici supremi per ragioni smaccatamente di parte e ideologiche è sempre sbagliato moralmente benché sempre corretto formalmente. La Costituzione, cioè, garantisce saggiamente la facoltà di farlo al Congresso, ma non dice quando e come perché non è positivista: lascia fare alla virtù politica per eccellenza, la φρόνησις, phronesis, «saggezza» (come ragion pratica distinta dalla «sapienza»), perfezionata nei secoli dal battesimo nella virtù (cardinale e laica) della prudentia.

Ampliare il numero dei giudici della Corte Suprema federale per pilotare il risultato delle sentenze, cambiando le regole del gioco a partita in corso, è immorale. Cambiare le regole non lo è, farlo a partita in corso sì. Modificare la maggioranza per sottrarsi al confronto quando i numeri non arridono, e dopo avere per anni, per decenni usato per scopi politici un organo che deve invece essere super partes, è vigliacco.

La questione dell’aumento del numero dei giudici supremi è spuntata durante la campagna elettorale dell’anno scorso, a fronte delle nomine, decisive, benemerite, operate dal presidente Donald J. Trump. A domanda diretta, Biden si è allora sempre schermito. Ovvio. Palesare codardia e magheggio su un tema così sensibile in frangenti elettoralmente delicati non è mai salubre. Ma avvalersi della facoltà di non rispondere a volte equivale a confermare proprio che le dita nella marmellata sono le proprie. Del resto l’anima più virulenta del mondo Democratico e del popolo abortista non ha avuto bisogno delle stesse moine di Biden.

Ora la questione pare rispuntare. Probabilmente diventerà il tormentone nei prossimi mesi americani. Se Biden dovesse capitanare questa offensiva, mi piacerebbe rivedere in volto uno di quei tali che ripetono che, pur battendosi per il “diritto” degli altri a praticarlo, il presidente degli Stati Uniti è personalmente contrario all’aborto.

Image source: The East facade of the Supreme Court of the United States, photo by Jeff Kubina from Flickr, licensed by CC BY 2.0

Exit mobile version