In difesa di Steve Bannon

Prima di infierire gratuitamente su di lui chiedetevi se la legge tratta i conservatori come tratta i liberal

I cori estatici con cui la stampa mainstream ha dato notizia del rinvio a giudizio di Steven K. Bannon avrebbero lasciato Giuseppe Verdi a bocca aperta. Ma quanto finora pubblicato ha dato spazio soltanto ai particolari dell’accusa a lui più sfavorevoli, facendo sforzo zero per esaminarne eventuali punti di debolezza o prendere in considerazione possibili elementi a sua difesa. Come da copione, i «No Trump» hanno subito fatto da contraltare, tronfi di gioia. Il noto opinionista statunitense Andrew Napolitano si è per esempio affrettato a dire che per Bannon «non butta bene» senza neppure sprecare una virgola in sua difesa, a parte quello che in realtà è un non-argomento: «Sì, si può sostenere che agli enti no-profit sia consentito corrispondere denaro a qualcuno, ma era stato esplicitamente detto che questo non sarebbe avvenuto». Se la difesa più efficace è questa, davvero «non butta bene».

Ma la forza delle accuse contro Bannon (e contro gli altri tre incriminati) non è affatto chiara così come la stampa mainstream e i suoi corifei vorrebbero farci credere. Anzi, è persino peggio: è infatti un classico esempio di applicazione selettiva della legge.

Partiamo però dall’inizio. Il rinvio a giudizio di Bannon e degli altri tre coimputati è stato richiesto dall’Ufficio del procuratore degli Stati Uniti d’America per il Distretto meridionale di New York (SDNY), un ufficio famoso per essere decisamente anti-Trump. I suoi funzionari hanno infatti già preso di mira numerosi collaboratori di Trump con indagini e procedimenti giudiziari. Non è dunque una forzatura supporre che l’azione dell’SDNY contro Bannon non sia dettata semplicemente dalla preoccupazione per eventuali dichiarazioni false che gli incriminati possano avere reso ai propri donatori.

Diciamola allora tutta: conosco personalmente Bannon e lo considero un amico. Di più: sono stato io stesso testimone diretto della politicizzazione a sinistra della burocrazia e dei tribunali statunitensi. Nel 2016 l’Internal Revenue Service (IRS), l’agenzia governativa per la riscossione dei tributi, ha reso pubblico illegalmente l’elenco dei donatori della National Organization for Marriage che presiedo. Portata in tribunale, l’IRS ha poi pagato solo un misero indennizzo di 50mila dollari. Come e perché i nomi dei nostri donatori siano stati sbandierati in pubblico non si è mai saputo. Posso però garantire a tutti che se l’elenco reso pubblico fosse stato quello dei donatori della Planned Parenthood si sarebbe scatenato l’inferno. Certi alti funzionari dell’IRS sarebbero stati costretti a dimettersi oppure sarebbero stati licenziati in tronco, sarebbero partite audizioni al Congresso e si sarebbe scatenata la tempesta mediatica.  

Sappiamo pure che i nostri donatori, al tempo di Proposition 8 ‒ il referendum svoltosi in California il 4 novembre 2008 per inserire nella Costituzione di quello Stato un emendamento che ribadisse che il matrimonio è solo quello eterosessuale, referendum che poi abbiamo vinto ‒, sono stati minacciati di morte e di aggressioni. Forse che il governo si sia precipitato in loro aiuto? Affatto. I tribunali si sono rifiutati di muovere anche solo un dito, persino quando abbiamo fatto causa. E nel 2014 siamo stati multati nel Maine per reati che non abbiamo commesso in relazione alla campagna di finanziamento che lanciammo in vista del referendum che avrebbe protetto l’istituto matrimoniale in quello Stato. Le accuse erano fasulle, mosse da un attivista gay, ma un certo comitato sulle campagne di finanziamento si è comunque pronunciato contro di noi senza neppure celare la propria soddisfazione. Me li vedo darsi il cinque al termine della riunione, dicendo di avere «beccato quelli contro il matrimonio gay». Pur avendo ricevuto pressioni in tal senso, all’epoca mi rifiutai di ammettere una colpa che non c’era. Alla fine abbiamo pagato una multa e abbiamo continuato per la nostra strada.

La posta in gioco per Bannon è più alta

Bannon e gli altri tre coimputati, Brian Kolfage, Andrew Badolato e Timothy Shea, debbono rispondere di un’accusa di associazione a delinquere finalizzata alla frode telematica e di una seconda per associazione finalizzata al riciclaggio di denaro. Ciascuna di queste accuse prevede una condanna che può arrivare sino a vent’anni di galera.

Tutto quello che di questo caso si sa proviene però da una fonte unica: le dichiarazioni presenti nell’atto di accusa formulato dal Gran giurì. Per legge, le accuse penali formulate del Gran giurì sono totalmente di parte, incentrate solamente sulle affermazioni del pubblico ministero senza che l’accusato abbia la possibilità di presentare una difesa.

Ora, la causa intentata dal governo contro Bannon e gli altri coimputati poggia sul fatto presunto che uno di loro, Kolfage, avrebbe iniziato una campagna per la raccolta di fondi, mediante la piattaforma GoFundMe, finalizzata allo scopo di costruire un muro al confine meridionale degli Stati Uniti e questo con la promessa esplicita che lui, Kolfage, non avrebbe per questo lavoro ricevuto alcun compenso. Kolfage è un veterano della guerra in Iraq mutilato tre volte. L’appello per la raccolta di fondi ha avuto un successo straordinario, racimolando circa 20 milioni di dollari in pochi giorni. Pare però che Kolfage, che non è un esperto nel campo del no-profit, in realtà non disponesse di una struttura no-profit organizzata in grado di ricevere formalmente le donazioni raccolte attraverso GoFundMe o per stipulare contratti con un’impresa di costruzioni che si occupasse di costruire una parte del muro di confine. GoFundMe ha così fatto sapere a Kolfage che se non avesse creato immediatamente una società no-profit, e se i donatori non gli avessero dato il permesso di trasferirvi quanto raccolto, il denaro avrebbe dovuto essere restituito.

Kolfage si è dunque rivolto a Bannon e agli altri coimputati, è stato creato un nuovo gruppo no-profit, “We Build the Wall”, è stato scelto un Consiglio di amministrazione, è stato approvato uno statuto e sono stati aperti gli opportuni conti bancari. A quel punto Kolfage e il Consiglio, con la partecipazione di Bannon, hanno iniziato il faticoso compito di tornare a raccogliere nuovamente i fondi onde avere la certezza che i donatori autorizzassero il trasferimento del denaro alla nuova società no-profit. Il governo sostiene però che all’inizio fosse stato dichiarato che i membri del Consiglio, tra cui Kolfage e Bannon, non avrebbero ricevuto né stipendi né compensi. Invece parrebbe che Bannon abbia ricevuto una donazione di un milione di dollari da “We Build the Wall” destinata a un’altra organizzazione no-profit da lui stesso controllata. Questa società no-profit di Bannon avrebbe quindi corrisposto alla moglie di Kolfage 350mila dollari per consulenze in campo mediatico, mentre il resto di quel milione Bannon lo avrebbe speso per sé.

Presentati così, i fatti sono preoccupanti.

Di nuovo, però, queste sono solo le accuse totalmente di parte mosse dal Distretto meridionale di New York attraverso il Gran giurì. Non vi è l’ombra del tentativo di prendere in considerazione possibili spiegazioni che concludano per l’innocenza degli accusati o vie di difesa. Per esempio: se la moglie di Kolfage avesse lavorato davvero per la no-profit di Bannon? E se l’avesse fatto lo stesso Kolfage? E se la no-profit di Bannon avesse ricevuto quel milione di dollari per prestazioni regolari a “We Build the Wall”, magari per il posizionamento pubblicitario sui media? La stampa mainstream adora esaminare i rendiconti delle campagne lanciate dalle organizzazioni politiche conservatrici e afferma che esse valgono milioni di dollari laddove, in realtà, gran parte di quelle cifre vengono spese in pubblicità per conto di clienti che la pubblicità la pagano regolarmente. E qual era la situazione finanziaria della no-profit di Bannon prima che ricevesse i fondi di “We Build the Wall”? Per esempio, la società aveva forse affari in corso con altri, motivo per cui i fondi versati a Kolfage o a sua moglie potrebbero non provenire da bonifici effettuati da “We Build the Wall”? Il gruppo no-profit di Bannon aveva compreso le prestazioni che esso avrebbero reso con i fondi di “We Build the Wall”? Una parte dei fondi non potrebbe essere stata utilizzata per spese vive, viaggi o altri esborsi legittimi effettuati per conto di “We Build the Wall”?

Sono tutte domande assolutamente lecite, ma né a queste né ad altre c’è risposta, perché tutto ciò che è stato reso finora noto sono le accuse di parte contenute nel rinvio a giudizio avanzato dal governo.

L’obiettivo di “We Build the Wall” era la costruzione, mediante fondi privati, di una parte della barriera al confine meridionale degli Stati Uniti. Per questo scopo la società ha raccolto complessivamente circa 25 milioni di dollari. Nell’accusa vi è una frase altamente rivelatrice di ciò che è stato fatto con quei fondi: «[…] “We Build the Wall” ha pagato per la costruzione di un muro di confine», laddove invece si asserisce che gli accusati avrebbero spillato «centinaia di migliaia di dollari». È la tacita ammissione da parte del governo che una cifra compresa tra il 96 e il 98% di quei fondi sia stata usata esattamente come era stato detto ai donatori, ovvero per costruire una nuova parte del muro al confine meridionale. Ma non importa: quello di Bannon deve diventare un caso esemplare.

Ebbene, il SDNY attribuisce importanza notevole alle dichiarazioni, contenute in interviste e in e-mail, secondo cui Kolfage e “We Build the Wall” non avrebbero dovuto ricevere alcun compenso per il proprio operato. Per amore di ipotesi: anche qualora i fatti fossero quelli che il governo ha presentato nel caso Bannon, se il problema si riduce ad affermazioni false o fuorvianti contenute in e-mail destinate alla raccolta dei fondi, cosa dire di tutte le affermazioni false o fuorvianti che ho sentito proferire da uomini e da comitati politici liberal? Saranno accusati pure loro di frode telematica e di associazione a delinquere finalizzata al riciclaggio di denaro?

Un solo esempio fra le centinaia di e-mail per la raccolta di fondi che ricevo ogni mese contenenti affermazioni esagerate e potenzialmente false è la richiesta a favore diun nuovo comitato politico pervenutami da Amy McGrath, la sfidante Democratica di Mitch McConnell al Senato, che pretende di ricevere risposte positive pari del 450%. L’e-mail afferma pure che, a meno che Amy non riceva subito 9 milioni e 203mila dollari, tutti gli annunci pubblicitari in suo favore verranno ritirati. Se il comitato politico in questione non ricevesse i 9 milioni e 203mila dollari e però non bloccasse tutti gli annunci pubblicitari le autorità federali indagherebbero? Perché no, visto il precedente di Bannon?

La ragione sta in quattro parole: applicazione selettiva della legge.

Anche se l’azione penale dovesse essere imparziale, e non lo sarà, le ragioni di questo rinvio a giudizio potrebbero far scoprire a tutte le organizzazioni no-profit, a tutti i comitati politici e a tutti gli enti di beneficenza una verità giuridica potenzialmente devastante e invasiva. Ogni gruppo che nelle proprie e-mail per la raccolta di fondi dovesse esprimersi in modi che il governo considerasse «fuorvianti» o «falsi» correrebbe il rischio di vedere minata la riservatezza sia dei propri donatori sia dello scambio interno di informazioni sensibili.

Il caso Bannon è insomma solo una finestra che si apre sul cambiamento drastico in atto del diritto statunitense. A lungo i conservatori hanno difeso le istituzioni di questo Paese e specialmente il suo sistema giudiziario, e direi a ragione. Una delle caratteristiche più ripugnanti dei Paesi comunisti era l’ingiustizia palese. In Unione Sovietica le leggi scritte nei libri venivano applicate per tutti nello stesso modo soltanto in teoria, mentre spesso erano usate solamente per punire coloro che il regime prendeva di mira. Non avrei mai pensato che questo Paese potesse seguirne l’esempio, ma, purtroppo, oggi ci troviamo proprio a camminare lungo questa strada.

I conservatori hanno sempre ritenuto che, benché anche negli Stati Uniti si potessero verificare errori nell’applicazione della legge, in generale i tribunali del Paese fossero imparziali. Be’, per ora possiamo dire addio a questa idea. Tribunali e pubblici ministeri sono infatti sempre più mossi da fattori ideologici facenti capo a una sola parte politica. Benché in questo Paese continuino a esserci grandi pubblici ministeri e grandi giudici, vi è pure un numero sufficientemente grande di professionisti di formazione marxista che si è infiltrato nella professione giuridica facendo sì che, al momento di applicare la legge, pregiudizi e animosità nei confronti di una certa parte dello spettro politico siano sempre più la norma.

I nostri lettori lo sappiano: anche ora, con Trump presidente, un conservatore che dovesse finire in tribunale in questo Paese avrà sempre più in difficoltà di altri. Dai pasticcieri denunciati per non aver voluto preparare dolciumi LGBT a David Daleiden, incolpato per avere denunciato la Planned Parenthood, a chi ha difeso la propria casa dalle recenti rivolte venendo accusato di avere imbracciato le armi: e intanto i giacobini che sfondano i cancelli ed entrano in una proprietà privata debbono rispondere di… nulla. Le  città americane sono in mano ad anarchici e a masse di violenti che si danno ai saccheggi mentre i sindaci e i pubblici ministeri non fanno nulla. E però in tutto il Paese sono i conservatori a vedersi espropriati del diritto a una giustizia equa davanti alla legge.

Prima di infierire su Steven Bannon, rispondete dunque a queste domande: vi fidate dei media? Siete convinti che la legge venga applicata in maniera equa quando gli imputati sono i conservatori? Se la risposta è «no» a una o a entrambe le domande, lasciate a Bannon il beneficio del dubbio. Rifiutatevi cioè di considerare il rinvio a giudizio voluto dal Gran giurì una prova definitiva e cercate ragioni plausibili alternative che mettano in dubbio l’accusa.

I conservatori non abbandonano i brav’uomini sul campo di battaglia. Bisogna fare tutto il possibile per stare a fianco di chi è stato al nostro fianco. Ma, se non altro, bisogna che tutti si rendano conto di quanto la stampa mainstream e l’establishment odino Bannon, un odio che potrebbe persino avere qualcosa a che fare con le accuse mosse contro di lui.

Exit mobile version