Il Sudan mette fuorilegge le mutilazioni genitali femminili

Finalmente una vera misura di protezione dell’infanzia e della donna in Africa, altro che l’aborto

Lametta

Image by Thomas Breher From Pixabay

Last updated on aprile 6th, 2021 at 05:26 am

In occasione della Giornata internazionale contro le mutilazioni genitali femminili, indetta dall’Organizzazione delle Nazioni Unite per oggi, 6 febbraio, “iFamNews” ripropone ai lettori un articolo che plaude alla decisione del Paese africano di vietare tali pratiche con una legge ad hoc in vigore dall’anno scorso. Occorre aggiungere tuttavia che l’abolizione delle mutilazioni genitali femminili rientra meritoriamente fra i 17 Obiettivi di sviluppo sostenibile, o globali, presenti in Agenda 2030, che però riporta anche un obiettivo 3.7 in cui si leggono parole che suonano sinistre alle orecchie di chi combatte l’aborto e la cultura di morte e che auspica «entro il 2030, [di] garantire l’accesso universale ai servizi di assistenza sanitaria sessuale e riproduttiva, compresi quelli per la pianificazione familiare, l’informazione e l’educazione, e l’integrazione della salute riproduttiva nelle strategie e nei programmi nazionali».

Da qualche giorno [prima del 7 maggio 2020, data di pubblicazione dell’articolo], in Sudan, la pratica delle mutilazioni genitali femminili (MGF) è stata dichiarata reato. Chi dovesse praticarla incorrerà nella pena di tre anni di carcere e in una multa.

Ma di che cosa si tratta? Il Parlamento Europeo definisce MGF le «procedure che comportano la rimozione parziale o totale dei genitali esterni femminili o altre lesioni ai genitali femminili per motivi non medici. Di solito vengono eseguite da un circoncisore tradizionale con una lama e senza anestetico».

Il riferimento è a pratiche rituali di tipo religioso o comunque culturali, diffuse su percentuali altissime della popolazione nell’Africa sub-sahariana e in Medioriente, più limitatamente in Asia e in America Latina. I fenomeni migratori, come immaginabile, fanno peraltro registrare casi fra le comunità di immigrati anche in Europa, negli Stati Uniti d’America e in Australia.

Le modalità di attuazione possono essere diverse, da rituali poco più che simbolici (dal punto di vista fisico, meno certo è che siano inoffensivi anche sul piano psicologico) alla rimozione del cappuccio clitorideo, sino all’infibulazione, che prevede la rimozione parziale o totale sia delle piccole sia delle grandi labbra e la cucitura della vagina, lasciando solo un piccolo foro per il passaggio dell’urina e del flusso mestruale.

Sono pratiche estremamente invasive, non prive di conseguenze per la salute fisica, sessuale e psichica delle donne che vi sono sottoposte, spesso bambine o poco più. Sovente, inoltre, le condizioni igieniche in cui tali “interventi” vengono eseguiti sono talmente tragiche che l’ipotesi della morte per dissanguamento o per infezioni non è affatto remota.

Le motivazioni sono, come detto, culturali, prive di ragioni mediche, sanitarie o terapeutiche, e risentono fortemente della pressione sociale, ancorata saldamente a ideali di bellezza e di purezza che si rifanno a un passato lontano.

A oggi si stima che siano dai 100 ai 140 milioni le donne nel mondo sottoposte a MGF e che le bambine che subiscono tali pratiche siano ogni anno circa 3 milioni. In Europa il loro numero si attesta intorno alle 600mila unità.

Il Parlamento Europeo sottolinea la pericolosità delle MGF e come afferma sul proprio sito Internet «ha ripetutamente dimostrato un forte impegno per aiutare ad eliminare questa pratica in tutto il mondo. […] ha raccomandato un’azione comune per sradicare la mutilazione genitale femminile. Mercoledì 12 febbraio 2020 i deputati hanno votato una nuova risoluzione per chiedere alla Commissione europea di includere azioni per porre fine alle pratiche di MGF nella nuova Strategia per la parità di genere dell’UE […]».

L’Organizzazione mondiale della sanità (OMS) considera le mutilazioni genitali femminili una violazione dei diritti umani e, fra i Paesi occidentali democratici, la Svezia è stata la prima a bandire tali pratiche, nel 1982, giudicandole punibili con dieci anni di carcere.  

In Italia, dove il fenomeno è stato rilevato in comunità di persone originariamente provenienti soprattutto dall’Africa e dal Medioriente, la Legge n. 7 del 9 gennaio 2006 stabilisce la reclusione da 4 a 12 anni per chi pratichi mutilazioni genitali femminili, pena che però è aumentata di un terzo se la mutilazione viene compiuta su una minorenne, nonché in tutti i casi in cui venga eseguita per fini di lucro.

A fronte di politiche abortiste o volte al controllo neomalthusiano della natalità, spacciate sempre per misure di “salute riproduttiva e sessuale” della donna, decisioni come quella presa ora in Sudan, proprio in uno dei teatri di questa tragedia, fanno finalmente giustizia di quegli abusi semantici e concettuali che grondano sangue.

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