Last updated on Luglio 30th, 2020 at 04:05 am
Forse è ora di qualche timido bilancio della crisi generata dal CoViD-19 e il primo che mi assumo la responsabilità culturale di stilare è una diagnosi medica: il complottismo è una malattia dell’intelligenza che nuoce gravemente all’anima. Ma non è necessario essere ammalati nell’intelligenza e avere già riportato gravi danni all’anima per rimanere di stucco davanti alla pervicacia ‒ quasi da esperimento sociale, come se i governi ci avessero lanciato una challenge colossale ‒ con cui la libertà di culto è stata negata. Nella stragrande maggioranza dei casi la chiusura dei luoghi di culto è avvenuta in nome di una volgare pretesa materialistica: tenere aperti i supermercati e chiudere le chiese, perché l’importante è riempire la pancia, del resto chissene importa. Sa benissimo anche il sottoscritto che primum vivere deinde philosophari, ma afferire liberamente al culto è solo philosophari?
C’è però forse qualcosina in più. Mi ronzava nella testa da un po’, ma me ne sono reso conto rotondamente apprendendo di quanto avviene in Nuova Zelanda. Se uno chiude le chiese, le moschee, le sinagoghe e quant’altro perché ha paura del contagio ma il contagio è zero, perché non riapre i luoghi di culto? Forse perché il vero motivo della chiusura non è il coronavirus? Qual è dunque? Sperimentare fino a che punto si può tirare la corda senza che si spezzi? Capire quanto e quando si possono tenere i cittadini al guinzaglio? Una prova generale del controllo totale? L’odio puro e semplice verso la religione in stile Partito Comunista Cinese ancorché in versione democratica? Suona complottismo, sì, ma, appunto, suona, non è. Sarebbe complotto se mancassero i fatti, ma visto che in Nuova Zelanda i luoghi di culto non riaprono pur avendo raggiunto zero contagi, la domanda urge.
Ma il punto vero è ancora un altro. Andata com’è andata con il CoViD-19, tutti i governi che hanno chiuso presto e molto i luoghi di culto sono pronti a rifarlo non appena se ne presentasse un’altra occasione, raccontando ancora la favoletta del meglio sani che mai? Che sia una favoletta, infatti, è evidente.
Il CoViD-19 ci ha aggrediti di brutto perché non sapevamo nemmeno che esistesse. Non eravamo preparati, non avevamo cure, ci ha ammazzati. Così però è per qualsiasi malattia. Probabilmente il primo Homo sapiens che ha starnutito ha fatto una strage e poi c’è morto pure lui. Fortunatamente i meccanismi naturali (perché allora c’erano solo quelli) hanno agito prima che la malattia sterminasse tutti e hanno trasformato un morbo fatidico in un “semplice” raffreddore. Poi sono venute altre malattie non più mortali del raffreddore finché al raffreddore i Sapiens non ci hanno fatto il callo, tipo lebbra, vaiolo, peste. A molte di queste i Sapiens non hanno fatto tecnicamente il callo: si sono diradate grazie a una serie di concause ed eventualità al miglioramento delle condizioni di igiene e/o di alimentazione, ai progressi della medicina. Ma quelle malattie covano ancora dietro l’angolo, attendono un nostro attimo di distrazione per tornare a ruggire e a mordere.
La malattia peggiore, però, non è nemmeno la lebbra, non è il vaiolo, non è la peste: è quella che non conosciamo ancora, quella che non ha nome, quella che verrà non sappiamo né come né quando. Proprio come il CoViD-19 prima che si scontrasse con noi. Stante che questa è la realtà, che facciamo? Viviamo affrontando ogni giorno la sua pena oppure smettiamo di vivere per paura di un futuro che magari nemmeno si realizzerà? Se obbedissimo al principio di precauzione perfetto, dovremmo chiuderci in un buco e gettare la chiave per morire tutti perfettamente sani e il più in fretta possibile: la ricetta perfetta per eliminare quel virus uomo che ancora si ostina a vivere, socializzare e pregare. In Nuova Zelanda: liberi di suicidarci, ma non di andare in chiesa. Il principio di precauzione perfetto si chiama totalitarismo.