Il mistero della vita non si risolve. Si sperimenta

Davanti al «Dune» di Villeneuve: fotografia perfetta – forse troppo – del romanzo di Frank Herbert

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Last updated on Ottobre 20th, 2021 at 03:42 am

Tra gli spettatori che affollano le sale cinematografiche per il grande successo della pellicola di Denis Villeneuve, record di incassi, è possibile distinguere due categorie: c’è chi è andato a vedere Dune (pronunciato ‘dju:n, all’inglese) e chi è andato a vedere il remake di DUNE (d-u-n-e), l’epico film diretto da David Lynch nel 1984, record, forse, di critiche negative, nondimeno punto di riferimento inevitabile per tutti i cultori di fantascienza. Persino gli Iron Maiden si sono cimentati con Dune in To Tame a Land , del 1983: «He’ll make a stand, / against evil the fire / that spreads through the land, / He has the power/to make it all end».

Nuovi mondi e intrecci antichi

Il primo gruppo, gli spettatori di ‘djun:n, il Dune di Villeneuve, non ha potuto che apprezzare il «mastodontico ed emozionante» primo capitolo della saga tratta dai romanzi dello scrittore statunitense Frank Herbert (1920-1986). Colpiscono indubbiamente le ambientazioni, con «sequenze di grande effetto, in cui si uniscono eleganza e maestosità». Lo spettatore è avvolto e coinvolto, quasi accompagnato alla scoperta dei nuovi pianeti con cui prende man mano dimestichezza. Per chi si aspettasse molta azione e cambi repentini di scena, però, c’è poco. Questa pellicola ha infatti finalità quasi educativa: la fantascienza, prima che di raggi laser e di astronavi, è fatta di mondi lontani, sconosciuti, di vicende remote e straniere, eppure così profondamente umana da farcene provare una nostalgia particolare.

Oltre alle immagini dei nuovi mondi antichissimi, infatti, quel che affascina della trama di Dune non sono gli accadimenti puntuali, bensì l’intreccio di relazioni, diplomazia, politica e religione che sottendono la storia. Finalmente allo spettatore è dato di assaporare che quanto accade sullo schermo non è solo la somma degli eventi visibili: sta assistendo, cioè, soprattutto a una epopea lunga millenni, in cui il «qui e ora» sono solo l’accidente immediato di un flusso secolare. In questo senso Villeneuve non delude.

Le Bene Gesserit e il tradimento degli elfi

Per chi appartenesse invece al secondo gruppo, gli spettatori di D-U-N-E, quelli che sono entrati in sala con il mantra «Arrakis… Dune… Il Pianeta Deserto…» nella mente, forse la sensazione non è proprio la stessa. Certo, rispetto alla pellicola di Lynch, onirica, psichedelica e anche un po’ fastidiosamente eccessiva, la fedeltà di Villeneuve alla lettera del testo di Herbert affiora significativamente.

Con almeno una eccezione riguardante le Bene Gesserit, un ordine matriarcale dotato di poter psichici, impegnato a garantire pace, progresso e stabilità al genere umano attraverso un programma di eugenetica finalizzato a dare vita al Kwisatz Haderach, la figura messianica maschile attesa dal popolo di Arrakis.

Caratteristica delle Bene Gesserit è un addestramento durissimo, diretto al controllo di ogni fibra del proprio corpo e all’utilizzo della Voce, una frequenza tale da poter influenzare gli altri impartendo comandi diretti in modo da essere obbediti. Nel film di Villeneuve appare una Reverenda Madre – ai vertici della gerarchia Bene Gesserit – che, quando utilizza La Voce, sembra il pesciolino Dory quando parla il balenese. Ma è la figura di Jessica (Rebecca Ferguson), sorella Bene Gesserit concubina di Leto (Oscar Isaac) e madre di Paul Atreides (Timothée Chalamet), a tradire profondamente il ruolo di una creatura che, nell’immaginario fantascientifico, risulta essere il parallelo dell’Elfo della Terra di Mezzo o dei robot Daneel Olivaw e Giskard Reventlov, dei cicli creati dallo scrittore Isaac Asimov (1920-1992).

Lontanissima da perfezione e imperturbabilità eteree e apparenti, Jessica è costantemente in tensione, sull’orlo delle lacrime, piena di fremiti, anche fisici. Ripete la litania delle Bene Gesserit: « Non devo avere paura. La paura uccide la mente. La paura è la piccola morte che porta con sé l’annullamento totale. […] Là dove andrà la paura non ci sarà più nulla. Soltanto io ci sarò», ma le sue movenze e la sua espressione fanno pensare a una pessima filastrocca di training autogeno e non certo a un mantra religioso dal fortissimo potere psichico. Come possa una donna dalla fragilità spiccata e umanissima potere apparire come il sostegno angelico e la compagnia solida al percorso alla divinità del proprio figlio appare decisamente incomprensibile.

Lo spirito e la lettera

Non fosse per questo scivolone si potrebbe definire il Dune di Villeneuve come una fotografia splendida, fedele e “instagrammabile” del capolavoro di Herbert. Molto più aderente nel percorso della trama e nella traduzione visiva della precedente pellicola omonima.

Quel che tocca contestare, però, ha proprio a che fare con il “tradimento” delle Bene Gesserit: quel che manca a Villeneuve è la fedeltà allo spirito di Herbert. Dune è la storia, dentro le storie di trame e potere, religione e politica, amore e vendetta, di una umanità alla ricerca di se stessa, che vive, nelle parole dell’autore, la continua e «ineluttabile spinta della razza a rinnovare la propria eredità dispersa, incrociandosi, mescolando le stirpi in un gigantesco ribollire genetico». La tensione all’immortalità permea tutta la narrazione, in un rincorrersi di materialismo scientista, da una parte, e di formalismi religiosi, dall’altra, senza che mai una sintesi definitiva possa saziare una sete che è infinita.

Questa dimensione trascendente, trasmessa in qualche modo dalle scene visionarie e caotiche di Lynch, si perde quasi completamente nella pulizia e nell’equilibrio di Villeneuve. L’unica eccezione, forse, proprio in una scena di cui non vi è traccia, nel testo originale di Herbert: il perfido barone Harkonnen (Stellan Skarsgard) immerso in una inquietante vasca di liquido nerastro, simbolo di una umanità deturpata e già sconfitta, che ha evacuato il “mistero della vita”, ma ne allevia il peso con sospensori meccanici, quando appunto non si rotola nel fango.

Lasciamo a Villeneuve il beneficio del dubbio: dopo questo “documentario introduttivo” su Arrakis, la spezia e il Verme, nel preannunciato sequel si spera di venire sorpresi dalla sperimentazione dell’attesa tutta umana di una mente «capace di superare spazio e tempo», che doni all’umanità un futuro migliore. Nella consapevolezza, però, che «il troppo sapere non semplifica mai le decisioni». Parola di Paul Muad’Dib.

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