Il maschio tossico 2/2. L’ideologia che odia gli uomini

Il Festival di Sanremo ha sdoganato l’espressione «mascolinità tossica». Origine e rischi di una intemerata sessista

Manifestazione femminista

Manifestazione in Oregon, 2018 - Foto di Sarahmirk

Last updated on Febbraio 20th, 2020 at 01:47 am

«Mascolinità tossica». L’espressione, confinata fino a dieci giorni fa nell’alveo della discettazione accademica e nel campionario degli slogan femministi, è diventata di dominio pubblico al Festival di Sanremo. Achille Lauro, salendo sul palco dell’Ariston vestito in modo analogo a David Bowie (1947-2016), ha così spiegato la scelta dell’abbigliamento pittoresco e femmineo: «Ziggy Stardust, uno dei tanti alter ego di David Bowie. Anima ribelle simbolo di assoluta libertà artistica espressiva e sessuale e di una mascolinità non tossica». Come a dire: l’uomo dall’aspetto efebico sarebbe depurato dell’elemento tossico, ossia della virilità. Una lettura del sesso maschile risoluta e ostile, giacché suggerisce l’idea che l’uomo ‒ per avere legittimità ‒ debba attingere caratteristiche al di fuori di sé, alla femminilità appunto. Per dirla in breve, l’uomo “buono” si veste da donna, l’uomo “cattivo” resta sé stesso. Così la pensano gli esegeti della mascolinità tossica e così si esprimono i loro proseliti sulla scena.

Il “maschio bianco arrabbiato”

Ma questa guerra contro il modello classico di uomo (con l’aggravante di essere bianco) non si consuma soltanto nel mondo dello spettacolo, ma trova campo di battaglia laddove si genera cultura. Un paio d’anni fa, nell’Ohio State University di Columbus è stato lanciato un corso per dimostrare agli studenti che «la virilità eterosessuale bianca è presumibilmente problematica». Ecco presentarsi nel piano di studi testi come Masculinity as Homophobia («La mascolinità come omofobia») di Michael Kimmel, Sodomy in the New World («La sodomia nel Nuovo Mondo») di Jonathan Goldberg e Teaching Men’s Anal Pleasure («Insegnare il piacere anale agli uomini») di Susan Stiritz. Quello dell’Ohio è un caso isolato? Niente affatto.

«Maschi tossici» nel celebre Poveri ma belli

In aprile, nell’Università del Kansas di Lawrence è spuntato un corso simile, dall’eloquente titolo Angry White Male Studies («Studi sul maschio bianco arrabbiato»). «Questo corso», si legge nella descrizione, «illustra l’ascesa del “maschio bianco arrabbiato” negli Stati Uniti e nella Gran Bretagna dagli anni 1950, esplorando le origini più profonde di questo stato emotivo e valutando le manifestazioni recenti della rabbia maschile». Eppure il culmine non è stato raggiunto né in Ohio né in Kansas, bensì in Canada, nella University of Regina, dove, nel 2014, è stata persino allestita «una cabina per la confessione della mascolinità». Un luogo appartato, dove gli studenti maschi possono recarsi per esprimere liberamente i propri mea culpa riguardo gli eccessi di virilità. Nessun reverendo ad ascoltarli, e nemmeno uno psicologo o un docente, bensì un ragazzo qualunque, un collega d’ateneo con il quale potersi confrontare in modo schietto. L’obiettivo ‒ spiegava l’ideatrice di questo confessionale laico, una professoressa di kinesiologia (lo studio dei movimenti corporei) ‒ è quello di «promuovere una mascolinità sana», per non reprimere le proprie emozioni evitando così esplosioni di rabbia.

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Riecco dunque le etichette, la visione manichea di ciò che è sano e di ciò che è insano. È sano l’uomo che nasconde la virilità dietro maschere dalla sessualità eterea, mentre è insano l’uomo che non indossa costumi sfavillanti, in quanto visto come potenzialmente sessista e violento. Ma in questo enorme circo dell’inverosimile, che spazia dai palcoscenici alle aule universitarie, c’è ancora chi non si piega al vento del pensiero dominante. Come afferma ad Avvenire Brenda Todd, docente di Psicologia dello sviluppo alla City University di Londra, «i ragazzi, quando si avvicinano alla pubertà, vedono e sentono critiche continue all’identità maschile: sui media, nelle serie televisive e in politica. L’effetto sulla loro autostima è profondamente negativo. Dovrebbero essere orgogliosi della loro virilità. E non pensare che vi sia qualcosa che non va». Le fa eco sullo stesso quotidiano lo psicologo John Barry, uno dei fondatori della sezione maschile della British Psychological Society, che si dice «preoccupato» dell’uso dell’espressione «mascolinità tossica», «e del fatto che non vengano condotte ricerche sull’impatto che può avere sui ragazzi». Barry aggiunge: «Ho timori per la salute mentale dei giovani maschi, in quanto esiste un vero rischio che crescano con l’idea che esista qualcosa che non va in loro, e con un senso di colpa per eventi negativi di cui non sono responsabili». Chiaro l’invito dell’esperto a evitare di imbastire una guerra tra i sessi. Quella sì, che sarebbe veramente tossica.

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