Nel mirino delle Veglie per il superamento dell’«omobitransfobia», che si svolgono attorno alla metà del mese di maggio in alcune chiese italiane, il sorpasso avviene anzitutto ai danni del Catechismo della Chiesa Cattolica, anzi della sua libertà di evangelizzare.
«Dove c’è lo Spirito del Signore c’è libertà» (2 Cor 3,17), recita uno degli slogan scelti dai promotori dell’iniziativa, asseritamente cristiani LGBT+, per rivolgersi ai credenti di ogni fede religiosa.
L’occasione è quanto mai propizia, benché infausta, per presentare volumi che narrano di omosessualità all’interno dei conventi e delle canoniche, talvolta catalogandoli addirittura come «storie sacre».
Senza entrare nel merito delle vicende singole, che sembrano richiamare gli stornelli ambientati nell’osteria del Vaticano, vi è da constatare il fallimento di quelle vocazioni alla vita religiosa dirottate verso l’esaltazione di una tendenza affettiva che solo nell’esercizio della castità troverebbero il modo di non tradursi in atti moralmente disordinati.
Parallelamente e parimenti si deve constatare l’assenza di un’opera di sensibilizzazione verso il combattimento contro il peccato. Anzi, dipinta ormai la «terapia riparativa» come una forma di violenza, accusata di essere foriera di danni psicologici e perfino bollata come un’istigazione al suicidio, paiono non esservi più alternative all’accettazione di una identità che essenzialmente coincide con l’attrazione verso persone dello stesso sesso. Così, tutto quanto suona in contrasto con il diktat della cultura gay finisce sotto la categoria denigratoria dell’«omobitransfobia». Ma il percorso di ricerca della volontà di Dio, in tutto questo, sembra smarrito.