Last updated on aprile 6th, 2021 at 05:27 am
Ormai è come un copione già scritto. Quando si tratta di votare norme impopolari volte a riformare in modo radicale il diritto di famiglia, il parlamento tergiversa (o forse finge di tergiversare) e affida il “lavoro sporco” alla giurisprudenza. Così è avvenuto anche il 14 gennaio con la pronuncia della Corte Costituzionale che ha sollevato dubbi di legittimità sull’articolo 262 del Codice civile, che prescrive l’assegnazione ai figli del solo cognome paterno. L’articolo stabilisce che «il figlio assume il cognome del genitore che per primo lo ha riconosciuto», tuttavia, se «il riconoscimento è stato effettuato contemporaneamente da entrambi i genitori, il figlio assume il cognome del padre».
Arrampicandosi su montagne e finestre
Tutto è partito dal Tribunale di Bolzano, che ha sollecitato la Consulta a esprimersi su detto articolo, dopo che una coppia sudtirolese aveva richiesto per il figlio l’assegnazione del solo cognome della madre, perché, a detta dei due, in tedesco suonava meglio di quello paterno.
La Corte Costituzionale non è nuova a pronunce in questo ambito: già l’8 novembre 2016, con la sentenza 286, i giudici avevano decretato la possibilità, per il bambino, se i genitori fossero stati d’accordo, di prendere sia il cognome del padre sia quello della madre. Quest’anno come quattro anni fa relatore della sentenza è ed era l’ex premier Giuliano Amato. Nel 2016 la Corte aveva definito l’impedimento all’attribuzione del cognome materno «un’irragionevole disparità di trattamento tra i coniugi, che non trova alcuna giustificazione nella finalità di salvaguardia dell’unità familiare». Circa sei mesi dopo, nel giugno 2017, il ministero degli Interni diffuse quindi una circolare stabilendo che il primo cognome da indicare all’anagrafe è sempre quello del padre. Secondo il Viminale era sufficiente la dichiarazione verbale di entrambi i genitori sul cognome da assegnare al figlio, mentre non era consentita l’attribuzione del solo cognome materno.
Dieci anni prima, nel 2006, era stata ancora la Corte costituzionale a giudicare l’attribuzione automatica del cognome paterno come il «retaggio di una concezione patriarcale della famiglia la quale affonda le proprie radici nel diritto di famiglia romanistico, e di una tramontata potestà maritale, non più coerente con i principi dell’ordinamento e con il valore costituzionale dell’uguaglianza tra uomo e donna».
Parlamento inerte da quarant’anni
Sempre nel 2016 la Consulta aveva sollecitato l’intervento del legislatore, anche alla luce di un dibattito parlamentare che languiva da quasi 40 anni. Effettivamente la prima proposta, avanzata da Maria Magnani Noya (1931-2011), deputato del Partito Socialista Italiano, risale al 1979. Il fiume carsico della riforma del doppio cognome è poi riemerso nella scorsa legislatura con una proposta di legge bipartisan in tre articoli, di cui primi firmatari sono Alessandra Mussolini (Forza Italia) e Stefano Esposito (Partito Democratico). Per certi versi quella proposta anticipava lo spirito della sentenza della Consulta del 2016: il figlio naturale assume il cognome del genitore che per primo lo ha riconosciuto, mentre, se il riconoscimento viene effettuato da entrambi i genitori, assume il cognome sia paterno sia materno.
Nella stessa legislatura, nel settembre 2014, è stato quindi approvato alla Camera dei deputati un testo unificato in sette articoli. Tra le innovazioni principali vi erano la possibilità per i genitori di attribuire ai figli il cognome del padre, quello della madre o entrambi; la persona registrata all’anagrafe con doppio cognome può trasmettere ai figli uno solo dei due cognomi; e la possibilità per il secondo genitore che avesse riconosciuto il figlio dopo la registrazione anagrafica di aggiungere il proprio cognome a quello del figlio dopo il compimento del quattordicesimo anno di età dell’interessato, previo consenso dell’altro genitore. Una volta passata al Senato, la proposta ha avuto come relatore Sergio Lo Giudice, noto anche per essere stato il primo parlamentare italiano a diventare padre grazie alla pratica dell’«utero in affitto».
All’inizio della legislatura attuale è stato presentato a Montecitorio il disegno di legge Disposizioni in materia di attribuzione del cognome ai figli – prima firmataria l’ex presidente della Camera, Laura Boldrini – che ripropone, con alcune modifiche, il testo unico del 2014. «In caso di mancato accordo tra i genitori, al figlio sono attribuiti i cognomi di entrambi i genitori in ordine alfabetico», si legge tra le altre cose nella bozza. «I figli degli stessi genitori coniugati, nati successivamente, portano lo stesso cognome attribuito al primo figlio». Nel gennaio 2019 una bozza molto simile è approdata in Senato per iniziativa dei parlamentari del Movimento Cinque Stelle Alessandra Maiorino (peraltro relatrice di una delle bozze confluite nel «testo unico Zan») ed Emanuele Dessì.
Tutto per il gender
Come nella stragrande maggioranza delle riforme (o, per meglio dire, stravolgimenti) del diritto di famiglia, anche per l’attribuzione dei cognomi genitoriali le pressioni sono tutte internazionali. In alcuni casi sono esplicite, in altri sono deformazioni conclamate dei princìpi di uguaglianza sanciti dalle convenzioni comunitarie. Non solo, infatti, il Trattato di Lisbona del 2008 vieta ogni discriminazione fondata sul sesso, ma, nel 2014, la Corte europea dei diritti umani ha condannato l’Italia per la normativa tuttora vigente, ritenuta «discriminatoria verso le donne» e in evidente contrasto con la Convenzione europea dei diritti dell’uomo. La Corte di Strasburgo aveva accolto il ricorso di una coppia milanese che, nel 1999, aveva chiesto ai tribunali italiani di attribuire alla primogenita il cognome della madre. Impossibile non vedere in questa lentissima, ma inesorabile operazione parlamentar-giurisprudenziale un combinato disposto con l’adozione omogenitoriale. Con la scusa di combattere il “patriarcato” anche sul fronte anagrafico, in realtà si va a contrastare la famiglia naturale tout court. La discriminazione delle donne e delle madri c’entra del resto poco. Specie qualora si abolisse del tutto il patronimico, e ai genitori venisse consentito di scegliere tra il cognome del padre e quello della madre, ci si troverebbe di fronte a una frammentazione e una dispersione delle radici familiari di ognuno. Una confusione, questa, che fa il gioco degli ideologi gender fluid: il fatto stesso che a perorare la causa del cognome materno siano stati parlamentari come Boldrini, Maiorino o Lo Giudice è un indizio. Non una prova, ma ci si avvicina molto.