Justin Trudeau, primo ministro del Canada e leader del Partito Liberale del Paese, ha vinto per la terza volta le elezioni, questa tornata anticipate in settembre, ma ottenendo risultati modesti in termini di seggi e restando così ancorato alla necessità di un governo di coalizione ben poco diverso dal precedente.
Preoccupato dalle difficoltà di bilancio, dovute forse anche all’aumento notevole delle spese sanitarie causate dalla pandemia di CoVid-19, in dicembre Trudeau ha inviato un documento al ministro delle Finanze Chrystia Freeland, conferendole il mandato, in cui delineava lo scenario delle politiche economiche previste per il futuro. Fra gli obiettivi imminenti evidenziati nel documento, figura una direttiva finalizzata a «[…] introdurre emendamenti all’Income Tax Act [la legge sull’imposta sul reddito] per rendere le organizzazioni anti-aborto, che forniscono consulenza falsa alle donne incinte sui loro diritti e opzioni, non ammissibili allo status di enti di beneficenza». Nella medesima direttiva, il primo ministro richiedeva anche di prevedere un aumento del credito d’imposta sulle spese mediche, per coprire i costi delle pratiche di fecondazione in vitro per le madri surrogate.
Le linee guida del partito in tale direzione, del resto, erano chiare già nel documento programmatico diffuso durante la precedente campagna elettorale, intitolato Forward. For Everyone, nel quale, nella sezione dedicata ai soliti famigerati «diritti sessuali e riproduttivi», si anticipava il concetto ribadito poi in dicembre e si citavano espressamente i «Crisis Pregnancy Center», accusati appunto di fornire «dishonest counseling».
I «Crisis Pregnancy Center» (CPC) canadesi sono affiliati a «Pregnancy Care Canada», organizzazione non profit di ispirazione cristiana che si occupa di informare e sostenere le donne durante la gravidanza, specie nei casi in cui questa non fosse inizialmente voluta. La questione dello status di ente di beneficenza, concesso o revocato a tali centri, non è puramente nominale o di prestigio, ma come ovvio tocca direttamente la questione fiscale e relativa alle proprietà, ai fondi e alle donazioni di cui essi possono o non possono disporre.
Ne è preoccupato Juergen Severloh, direttore del CPC di Winnipeg, che in una recente intervista rilasciata al canale CHVNradio e riportata sul sito web dell’emittente ha innanzitutto difeso i CPC dalle accuse di disonestà, affermando la limpidezza e la trasparenza dell’informazione fornita alle donne che si rivolgono ai centri, di cui è chiara sin dall’inizio la missione pro-life ma che in alcun modo si pongono in modo giudicante o aggressivo nei confronti di chi li interpella per aiuto o consulenza.
Ciò che Severloh teme, in particolare, è appunto la questione finanziaria e fiscale. «C’è un budget previsto per il mese [di aprile]», afferma, «e in quel budget di solito vengono incluse le modifiche alla legge fiscale e questo ci preoccupa».
«Revocare lo status di ente di beneficenza», aggiunge Severloh, «[…] significa anche che tutti i beni dell’ente debbono essere rimessi. Significa che l’edificio che ospita la nostra sede, le nostre proprietà e i soldi delle donazioni andranno persi. Tutto, tutto è perso». Soprattutto, ad essere perse saranno vite umane, quelle dei nascituri: in Canada, l’aborto elettivo è legale anche dopo 20 settimane di vita del bambino nel grembo materno.