Il «bebè à la carte» per avere potere totale sulla vita

Lo si può ordinare come un piatto di spaghetti. In Francia c’è addirittura una fiera, questo week-end

Last updated on Settembre 8th, 2020 at 05:59 am

È come quando vai alla fiera degli sposi: nessuno ti vende nulla in sede, ma ti riempiono di volantini, ti fanno preventivi, ti forniscono contatti, ti fanno venire idee e, se sei fortunato, riesci anche a rimediare qualche buono sconto.

Ora, quale prodotto sfilerà sulla passerella della fiera «Desir d’Enfant», che si svolgerà a Parigi domani, 5 settembre, e domenica, 6 settembre? Uno di grande valore: il prodotto-figlio.

Il marketing che ruota attorno all’infertilità non è una novità, specialmente quella che pubblicizza l’utero in affitto. Il sogno riproduttivo consumistico, infatti, è già oggetto a Bruxelles della kermesse organizzata da «Men Having Babies», che dal 2015 mette in contatto i propri iscritti con cliniche e agenzie specializzate che offrono la gestational surrogacy e numerosi altri servizi. Tra questi non manca ovviamente la selezione del sesso degli embrioni. Già, perché, se in India o in Cina eliminano le femmine prima della nascita, l’Occidente si indigna per le quote rosa mancanti; ma se la medesima cosa accade in una clinica della Virginia, basta rietichettare la pratica come «gender selection and family balancing» e il tutto si trasforma in un sofisticato servizio a pagamento, che fa girare l’economia e che celebra l’autodeterminazione dell’individuo.

Sono queste le derive di un progresso tecnomedico in ambito procreativo, considerato alla stregua di un Moloch e coerente con la nuova eugenetica di stampo liberal, che lascia l’immaginario dei film distopici alla Gattaca per farsi sempre più reale oggi. Si sta insomma atterrando all’epoca del bebè à la carte, dove il figlio è trattato come un oggetto, che risponde solo a criteri di commande in cui non ci sono norme morali perché, in fondo, si sa: il cliente ha sempre ragione.

Paradossalmente è proprio la Fiera francese di questo week-end a fornire la parola chiave per l’interpretazione antropologica ed etica di questo fenomeno: desir, desiderio.

Infatti la caratteristica di questo nuovo figlio è proprio che si tratta di un figlio del desiderio: non già del desiderio sessuale, ma del desiderio astratto del figlio, che poi un terzo esterno alla coppia si preoccupa di realizzare. Oltretutto si tratta di un desiderio separato da una tipologia familiare di riferimento, cioè il matrimonio, oltre che dalla sessualità. Ma è anche peggio di così. I termini «sessualità», «figlio» e «matrimonio» risultano interamente sottoposti al consenso reciproco degli individui e si concretizzano in desideri separatamente concepiti e separatamente istituiti: il desiderio sessuale, il desiderio del figlio e il desiderio di unione affettiva.

In particolare, è degna di nota la separazione tra il desiderio del figlio e il desiderio sessuale, poiché emergono in periodi separati, come se si trattasse di due formazioni storiche, di due progetti della vita della “coppia committente” che certamente sono collegati, ma che sono ormai considerati separatamente, poiché rispondono a logiche e a stati di coscienza propri a ognuno. Di fatto è proprio in questa dissociazione che si è radicata la rivendicazione dell’omogenitorialità. Del resto, se il desiderio del figlio è isolato e separato sia dalla sessualità sia dalla struttura matrimoniale, divenendo unico criterio di generatività, come e perché imporre dei limiti?

Da una prospettiva vincolata solo alla dinamica naturale delle potenze, il desiderio è segno di una sproporzione tra le capacità umane e la realizzazione di esse. È ciò che può essere chiamato “il paradosso del desiderio”, ovvero la sua inestinguibilità. In altre parole, non è attraverso il soddisfacimento dei desideri che si può appagare il desiderio costitutivo presente in noi; bensì è l’amore che trasforma la dinamica del desiderio.

L’accoglienza di una nuova vita ha un movimento inverso, infatti, rispetto a quello centripeto, tipico del desiderio fine a se stesso: è svuotamento di sé per fare spazio all’altro, non usa l’altro per “saziarsi”. C’è, invece, una sorta di “delirio di onnipotenza” in chi è disposto a tutto pur di ottenere il figlio desiderato, anche a sacrificare molte altre vite o a ridurre a “bioschiava” la donna che si presta a fare da “carrier” nella procedura di maternità surrogata.

Cercare di ottenere un figlio “a tutti i costi”, anche in senso economico, rientra in una mentalità produttivista che caratterizza fortemente l’ambito della fecondazione artificiale. Basta riflettere su quello che è successo da quando la genetica ha fatto capolino nell’ambito della riproduzione. Dalla germinal choice del medico statunitense Hermann Muller (1890-1967) all’ingegneria genetica, la prospettiva è diventata quella di ottenere il “miglior risultato possibile”. Lo stesso counselling genetico si è imposto nel panorama procreativo, non solo come un servizio per informare la coppia sulle possibili malattie genetiche trasmissibili ai figli, ma come “bussola” per discernere l’opportunità o meno di dare alla luce dei figli. Anche l’iniziativa dell’eugenista statunitense Robert Graham (1906-1997), simile a quella di Muller, di migliorare il plasma germinale mirava a contrastare il diffondersi degli esseri umani “retrogradi”, a tal punto che ne è nota l’iniziativa di rimediare il seme di premi Nobel e di metterlo a disposizione delle donne in cerca di un donatore. Anche in termini positivi, l’obiettivo più o meno velato è quello che, una volta messi a conoscenza dell’intero ventaglio delle terapie genetiche, i futuri genitori possano scegliere quali migliorie dare ai loro bambini prima della nascita.

Quando la bioetica parla del mutamento di prospettive avvenuto con la rivoluzione tecnologica, ragiona sul passaggio avvenuto fra tecnicamente possibile e eticamente accettabile. Ma c’è da aggiungere un passaggio intermedio. Cosa rende una tecnica –per esempio lo screening genetico prenatale (diagnosi prenatale e/o diagnosi preimpianto) – desiderabile a tal punto da quasi non poterne fare a meno? Le possibilità che oggi la scienza propone entrano a far parte della percezione comune della realtà, al pari di come il consumismo crea bisogni piuttosto che soddisfarli. Pertanto, ciò che avviene è la creazione non solo di aspettative, ma proprio di nuovi standard a cui conformarsi. Ed è il confronto con questa realtà a mutare poi il sistema valoriale. Il tecnicamente possibile muta il nostro approccio alla realtà generando bisogni, insoddisfazione e dunque nuovi bisogni. È qui che avviene il passaggio da ciò che posso a ciò che “devo”, non in senso etico evidentemente, ma in base ai must imperanti.  Nell’industria dell’infertilità avviene esattamente questo. Occorre, allora, un cambio di mentalità. Il figlio è senz’altro un bene, ma non un bene che si deve raggiungere e ottenere a tutti i costi, anche a quello di reificarlo, declassandolo da persona a cosa. Il figlio non è né prodotto né proprietà dei genitori. Il primo dovere è dunque rispettare il bambino come persona fin dal primo istante della sua esistenza e, dunque, fin dal concepimento. Il bambino è soggetto giuridico e ha il diritto d’iniziare la propria esistenza in forza di una fecondazione e di una gestazione degni di un uomo, quindi di entrare nella vita non da chimera, ibrido, clone o ben certificato prodotto di laboratorio, e nemmeno di essere commissionato e venduto al miglior acquirente.

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